La nostra è l'epoca del peccato contro Dio creatore (il peccato originale)

 

Introduzione

Non affronterò la “spinosa” – quanto, oggi, censurata – questione del peccato originale dal punto di vista dell’“esegesi biblica”, perché non sono un biblista, e anche perché la Rivelazione ci dice solo il minimo indispensabile su questo dato rivelato (abbiamo solo due passi che ne parlano esplicitamente: Gen 3 e Rm 5,12-14): così il Signore ha ritenuto bene fare per noi, per rispettare la nostra e la Sua libertà. Ma mi limiterò, almeno nella prima parte del mio intervento, a mettere in evidenza come senza questo “dato” non si possa comprendere, né spiegare adeguatamente, la condizione degli uomini nell’intera storia dell’umanità e, in particolare, la vera radice dell’“invivibilità” progressiva del nostro mondo contemporaneo. Per cui anche chi non aderisce con la fede alla Rivelazione giudeo cristiana, secondo la comprensione che ne ha offerto la Chiesa cattolica nella sua storia bimillenaria, può/deve essere ragionevolmente condotto a considerare il peccato originale almeno come l’“ipotesi più ragionevole” per rendere ragione della realtà dei fatti. Un po’ come si fa con le “ipotesi scientifiche”.

In questo senso l’incontro di oggi si collega direttamente al nostro precedente incontro del 6 aprile scorso (Come rendere vivibile una società? Che cosa dice il Magistero della Chiesa), nel quale abbiamo parlato del problema della “vivibilità” della società, del mondo, della terra. Il tema di oggi (Il peccato originale) si ricollega, forse sorprendentemente, al tema di allora. Ed è questo il collegamento che intendo fare avviando la nostra riflessione. 

Per cui seguirò questo ordine nel mio intervento.

  1. In un primo punto (più ampio) commenterò una breve frase di Benedetto XVI, riportata tra l’altro da papa Francesco come oggetto di un loro colloquio privato (Citazione riportata nella conversazione di Francesco con i Vescovi polacchi, Cracovia, 27 luglio 2016);
  2. In un secondo punto (più breve) mi soffermerò sulla formula con la quale san Tommaso d’Aquino definisce il peccato originale nella sua “essenza” (il che cos’è, quid sit) e nelle sue “conseguenze” antropologiche, per la vita dell’uomo.

Lascerò ai teologi di professione l’approfondimento di problemi “tecnici”, squisitamente teologici e biblici – anche se sarebbe interessante e insieme fin troppo impegnativo – per non rischiare di allontanarci dai temi concreti della vita dell’uomo che, oggi, toccano drammaticamente tutti da vicino e non riguardano solo gli specialisti della teologia.

La questione del “peccato originale” è certamente quella più censurata, non solo nella teologia di questi ultimi decenni, ma nella catechesi, nell’omiletica e, di conseguenza nella “cultura” che sta alla base delle “nostre civiltà”, quelle che consideriamo le più avanzate, e nella comprensione dell’intera storia dell’umanità passata, contemporanea e futura.

Eppure, senza questa “chiave di lettura della storia”, alla fine dei conti, la condizione umana rimane profondamente “non spiegata” ed incomprensibile nelle sue più serie ed ineludibili contraddizioni. E ai nostri giorni ci si ostina ancora, diabolicamente, a negare che la radice più profonda delle contraddizioni abbia a che fare con questa “radice originaria”. Si tratta di una censura e di una negazione che, in fondo, ha lo scopo diretto o indiretto di negare la necessità di un Riparatore, di un Salvatore umano-divino, cioè di Cristo.

E, di conseguenza, ci si ostina ancora a rimanere al livello della ricerca di “soluzioni” che sono solo “politiche”, “sociologiche”, “psicologiche”, allo scopo di rendere più sopportabile la condizione dell’uomo in questa vita terrena. 

Ingenuamente, ma forse anche maliziosamente, si tratta il brevissimo racconto biblico del peccato originale come una sorta di “mito superato”, quando non come una “favoletta” per popoli primitivi senza coglierne lo “spessore culturale” di “giudizio sulla storia”, di elemento dal quale non si può prescindere per “costruire la civiltà”. 

Da un punto di vista più propriamente “teologico”, poi, senza una comprensione di questo “principio” offerto dalla Rivelazione non si può comprendere neppure il vero significato dell’“Incarnazione del Verbo in Gesù Cristo”, e quindi il vero motivo di tutto il piano della Redenzione, Passione, Morte e Risurrezione di Cristo. E di conseguenza, il vero “spessore culturale” del cristianesimo rimane accantonato e inutilizzato, perfino agli occhi dei credenti e delle guide della Chiesa. 

 

1. Primo punto: la formula di Benedetto XVI

E vengo al primo punto: la frase di Benedetto XVI.

L’ha bene espresso quando ha affermato che questa è l’epoca del peccato contro Dio Creatore! Una frase che oggi, al più, viene manipolata in un senso falsamente ambientalista, mentre dice ben altro!

Dal punto di vista teologico possiamo dire che in questa formula è racchiusa l’essenza del “peccato originale”, come si manifesta, in particolare, ai nostri giorni. In poche parole Benedetto XVI: 

  1. ha formulato un giudizio “teologico” – cioè non di superficie e non limitato al solo aspetto strutturale e materiale della storia (gli aspetti sociale, economico-politico, psicologico- emotivo, ecc., i soli dei quali un po’ tutti parlano, ormai anche nella Chiesa e ai suoi vertici) – ma capace di andare alla radice delle cose a partire da un “lavorare insieme” di “ragione” e “fede”; 
  2. e ha indicato, con altrettanta profondità, se sappiamo applicare anche a noi stessi le sue parole, 

= il vero “scopo” di tutto il lavoro culturale interdisciplinare che uno studioso cattolico può e deve elaborare; 

= e la “responsabilità morale” che i credenti hanno, di fronte a se stessi e ai loro contemporanei. 

Questa consapevolezza può esserci, in noi, solamente se abbiamo chiara, nella realtà dei fatti, la gravità della situazione nella quale versano la “cultura” e la “civiltà” del mondo nel quale siamo immersi sia “globalmente” che “localmente”, gravità che il giudizio di Benedetto XVI identifica, nella sua radice profonda, come peccato contro Dio Creatore

In queste riflessioni cercherò di entrare dentro queste sue parole traendone le conseguenze e per prenderle sul serio sia per la nostra “condotta personale” cristiana, che per la “portata culturale” e di “civiltà” che esse hanno e, quindi, in ordine al nostro “doveroso contributo” al “bene comune”, al bene del nostro prossimo. Pensiamo alla genialità cristiana di un san Benedetto, o di un san Domenico con i suoi seguaci sant’Alberto Magno e san Tommaso d’Aquino, nel porsi con la medesima serietà nel contesto del loro tempo. 

Ma analizziamo le parole quasi una per una per non lasciarci sfuggire il “peso” che hanno. 

 

1.1. Questa è l’epoca…

Incominciamo, allora, con la prima parte della frase di Benedetto XVI.

Già la prima parola questa qualifica l’epoca di cui si parla come la nostra epoca e “inchioda” subito la coscienza umana e cristiana di ciascuno di noi con una domanda: quando diciamo “nostra/nostro” a che cosa pensiamo? 

Dal momento in cui ci alziamo alla mattina, quando siamo al lavoro e poi a casa, da soli se siamo soli o con la nostra famiglia se ne abbiamo formato una? Di che cosa è fatto il nostro “io” e il nostro “noi”? Dove sta? Qual è il suo ubi consistam? Il punto di appoggio 

  • esistenziale (autocoscienza, vita);
  • concettuale (pensiero, dottrina);
  • operativo (azione, morale). 

Dove ci collochiamo? Esistiamo “solo noi” o esiste “anche il resto del mondo”? A volte guardandoci intorno vediamo molte persone, soprattutto giovani (ma ormai, dopo alcuni decenni i giovani non sono più tali e da tempo un po’ tutti risentono di questa mentalità), che sembrano vivere come se esistessero “solo loro” al mondo fino a che qualcosa nella vita non li travolge lasciandoli come tramortiti e incapaci di orientarsi, storditi e smarriti, perché sono senza un “criterio di priorità”, che non sia il caso o la banalità, per la loro vita. 

Per voi però non sia così (Lc 22,26). 

Di che cosa si riempie la nostra “mente” e che cosa orienta il nostro “darci da fare”? Quali sono i nostri “criteri di priorità”? Ecco che subito dopo ci viene in aiuto un’altra parola di quella frase-giudizio: una parola che ci “colloca” (non esistiamo solo noi, ma siamo con altri nella storia) ed è la parola epoca

Non esisto “solo io” con i miei problemi, pur giusti, di carriera, di lavoro, di casa, di gestione della famiglia, di benessere privato. Queste sono cose importanti e urgenti, ma esiste “anche il resto del mondo”… Da giovani, come da vecchi a volte si tende, senza accorgersene, ad essere totalmente autoreferenziali. 

  • I vecchi tendono a vedere, anche comprensibilmente, solo i loro “malanni fisici” e la loro “solitudine”, e solo di questi parlano. 
  • I giovani vedono, più facilmente, solo le loro “ambizioni” e tendono a fare “i loro comodi” e solo questi per loro esistono. 

Una delle patologie del mondo di oggi è la logica del tutto mi è dovuto e gli altri esistono solo se mi fanno comodo.

Ma non fermiamoci solo alle piccole cose, che pure sono importanti, e allarghiamo l’orizzonte. L’invito contenuto in questa parola (nostra) è quello ad avere uno “sguardo universale”, alla “totalità” della “storia” e della “geografia” del mondo, senza fughe nelle utopie, ma con il realismo dei fatti. 

Siamo ormai abituati a spostarci senza problemi da un continente all’altro e questo ci può facilitare nell’avere sott’occhio una “totalità geografica”, soprattutto se si è abituati a tenersi in contatto con chi vive in altre parti del mondo. Ma se la parola “nostra” implica una consapevolezza in senso “geografico”, la parola “epoca” (nella frase di Benedetto XVI) porta con sé piuttosto la necessità di una consapevolezza “storica”, richiede una “capacità di giudizio” sul momento presente, relazionato con il passato e in vista del futuro. 

Essa raccoglie il richiamo di Gesù nel Vangelo.

Sapete dunque interpretare l’aspetto del cielo e non sapete distinguere i segni dei tempi
(
Mt 16,3).

E in modo ancora più stringente sul “presente”. 

Sapete giudicare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo? (Lc 12,56). 

E ancora, Gesù precisa la necessità di avere un “criterio di giudizio” che sia secondo “ragione” e “fede”. 

Non giudicate secondo le apparenze, ma giudicate con giusto giudizio! (Gv 7,24). 

Non si può vivere fuori della storia come se ci fossimo solo noi con le nostre cose e il resto non ci riguardasse se non quando ci è utile (lavoro, carriera, comodità, divertimenti vanno bene, ma su quale “pavimento” [ubi consistam] poggiano?): che cosa sta succedendo oggi attorno a noi, nella Chiesa e nel mondo? Quali sono le cause profonde dei problemi che stanno scatenando l’attuale dissesto della civiltà e delle coscienze, facendo impazzire i singoli e le comunità, smascherando l’inconsistenza dello spessore umano di chi ha potere per guidare e lo fa troppo spesso danneggiando? Ci accorgiamo di tutto questo o siamo chiusi in una camera stagna di “irrealismo”, che sembra essere protettiva, ma che si romperà presto? 

 

1.2. …l’epoca del peccato…

Passiamo alla seconda parte della “frase-giudizio” di Papa Benedetto nella quale si introduce la parola peccato

Abbiamo bisogno un po’ tutti di rimetterla a fuoco questa parola per non neutralizzarla rendendola “inutile”, perché oggi è divenuta scarsamente “significante”.

L’idea più diffusa della nozione di “peccato” è quella di trasgressione di una regola morale che può essere ritenuta opinabile e facoltativa. Se credo in determinate “regole”, per motivi religiosi, o al più ideali/ideologici, e le trasgredisco, ho commesso, in qualche modo, un “peccato”. Ma basta non crederci, o non essere troppo osservanti, per liberarsi anche dal problema del peccato. Il “relativismo” elimina il senso del peccato.

Molti riducono l’ambito morale ad una questione di “buoni o cattivi sentimenti” e, ne fanno, magari, anche l’oggetto della Confessione, se sono abbastanza credenti. Tutto il resto, ciò che conta nella vita a livello di decisioni e scelte quotidiane concrete, non passa nemmeno per l’anticamera del cervello che possa rientrare nella sfera morale. A meno che non riguardi la vita pubblica, la corruzione per denaro e potere. Ma nella vita privata non ci devono essere “leggi di natura” uguali per tutti. 

Una concezione corretta del “peccato” richiede, invece, una base più “oggettiva”. 

Possiamo essere aiutati, in questo, dal misurarci con una società a dimensione “scientifica”. Sappiamo che il mondo fisico, il cosmo, la vita biologica, tutto ciò che osserviamo, misuriamo quando ne siamo in grado, l’informazione, il processo cognitivo, sono governati da “regole”, da “leggi”, da un “ordine” al quale anche il caso, a suo modo, contribuisce. La scienza cerca di indagarle per conoscerle il più possibile e la tecnica cerca di applicarle utilizzandole per scopi utili. L’idea di far finta che tali “regole” e “leggi” non ci siano, o che si possano sostituire con altre poste arbitrariamente da noi, non può funzionare: uno non si butta giù da un aereo senza paracadute pensando di non schiantarsi al suolo solo perché non “crede” alla legge di gravità. La legge di gravità vale allo stesso modo per chi “ci crede” e per chi “non ci crede”: è oggettiva! 

L’uomo contemporaneo:

  • ha capito che ci sono le leggi “fisiche”, “cosmologiche”, “biologiche”, “cognitive”, ecc., che si possono utilmente applicare, ma non sovvertire senza danneggiare se stessi e in taluni casi anche la collettività o l’umanità intera;
  • ma non ha capito (o voluto capire) che ci sono anche delle leggi di natura “antropologica” per regolare il “comportamento” dell’essere umano: queste sono leggi dette perciò “morali”. 

Le più elementari sono sintetizzate nel Decalogo, e in qualche misura sono note fin dall’antichità precristiana, perché sono conoscibili con la ragione e l’esperienza, e possono/devono divenire anche oggetto di indagine scientifica per essere comprese, come leggi del “buon funzionamento” del comportamento umano. Esse, a differenza delle leggi del mondo fisico, non governano il comportamento umano in modo automatico (attraverso cause deterministiche o probabilistiche), ma sono stabilite per regolare quella “causa libera” che è la nostra volontà. 

L’odierno interesse per le humanities – discipline che cercano di studiare con metodi sistematici gli aspetti della vita dell’uomo, con metodi che riprendono in seria considerazione addirittura Aristotele, la sua antropologia e la sua “etica delle virtù” – sembra aprire, per ora timidamente, una porta in questa direzione. Ma ci vorrà ancora del tempo per giungere ad un’antropologia matura. 

Oggi si commette ancora – e non senza accanimento ideologico – l’errore (che potremmo qualificare di “metodologia scientifica”, ogni volta che si prende la decisione “teorica”, che si aggrava quando viene seguita dell’esecuzione “pratica”): 

  1. di fingere che tali leggi e regole “non esistano”; 
  2. oppure di ritenere che siano “convenzioni umane” che si possono capovolgere arbitrariamente con una “legge positiva” dello Stato (vedi divorzio, aborto, eutanasia, insegnamento del gender nelle scuole, unioni civili, presto probabilmente anche poligamia, legittimazione della pedofilia, ecc.); 
  3. oppure, ancora, che debbano essere rispettate nella vita pubblica e non nella vita privata nella quale ogni sregolatezza è considerata ammissibile. 

Si tratta di tre possibili ipotesi, sulle quali si costruiscono delle “teorie” che sono i “sistemi culturali”, o “ideologici” che reggono la convivenza sociale, la “civiltà” di nazioni intere e, oggi, del “mondo globale”; idee che sono divenute “obbligatorie” in un “pensiero unico” che deve pilotare le menti e le coscienze. Se osi metterle in discussione sei messo al bando e sanzionato anche penalmente. 

Il dato sperimentale, però, è contro di esse. Queste “ipotesi” e “teorie” sono state “falsificate” – per dirla con Karl Popper – dall’“esperienza” della perdita della vivibilità, che aumenta progressivamente nel nostro mondo e dal “blocco” nel funzionamento dei governi politici, entrati ormai in corto-circuito (i governi non riescono più a governare, gli Stati sono sempre meno adeguati a garantire ciò che dovrebbero e sono sempre più invasivi del terreno sociale e privato, la democrazia è sempre più un’apparenza). 

 

1.3. …del peccato contro Dio Creatore 

Veniamo all’ultima parte della frase-giudizio di Benedetto XVI che riguarda Dio Creatore. Alla luce della Rivelazione giudeo-cristiana, e in parte anche di una seria indagine razionale, l’esistenza di queste leggi ha la sua “origine” e il suo “principio di conservazione” in un “soggetto personale”, che è Dio Creatore.

Allora la negazione, il rifiuto, la trasgressione delle “regole”, delle “leggi” che governano il “corretto funzionamento” – perdonandoci l’espressione un po’ meccanicista – dell’essere umano, vengono ad assumere il carattere di “disprezzo”, e di “offesa” del loro Autore, così come si offende la persona di un artista disprezzando e cercando di sfregiare la sua opera. 

L’“errore” di cui abbiamo parlato, assume allora il carattere di una “offesa ad un soggetto personale”, a “Dio Creatore”. E come tale si definisce “peccato”. 

Il peccato, dunque, non è una semplice questione di sentimento o di trasgressione di una regola facoltativa che può essere interamente soggettiva, essendo diversa da persona a persona, da cultura a cultura, da popolo a popolo. Il peccato ha una base “oggettiva” nella struttura antropologica di “essere creato” che è intrinseca all’uomo, a delle leggi che Dio Creatore gli ha assegnato. 

Le componenti “soggettive” ci sono ma non sono le sole; piuttosto esse si aggiungono a questa base “oggettiva” e non possono mai eliminarla del tutto, così come non si possono eliminare le leggi del mondo fisico a partire dalle convinzioni soggettive degli scienziati. 

Negare questa base “oggettiva”, contro la realtà dei fatti (contro la natura dell’uomo e delle cose) significa rendere impossibile il “giusto” modo di esistere e di “funzionare” dell’uomo nel mondo. 

Attenzione alla parola “giusto”, che introduce il fattore “giustizia”. Si tratta del “giusto” rapporto: 

  • dell’uomo con “se stesso”; 
  • dell’uomo con “gli altri esseri umani” (il “prossimo”); 
  • dell’uomo con il “resto del mondo” (oggi non più conosciuto come “il creato”, ma al più come “l’ambiente”, termine troppo riduttivo, però, per funzionare, perché non parla del Creatore!). 

La corretta comprensione di che cos’è il “peccato” è, per così dire, incernierata a quella del “giusto rapporto” dell’uomo con “Dio Creatore”: il “peccato”, fino dalla sua prima origine (peccato “originale”), comune a tutti i peccati conseguenti (peccati “attuali”) consiste nel volontario venir meno di questa “giustizia originaria” (carentia originalis iustitiae) nel rapporto dell’uomo con Dio Creatore. 

Il lavoro da fare, oggi, dopo che sarà passata l’ondata delle terribili conseguenze di questo “errore di metodo” della civiltà contemporanea: 

  • dal punto di vista “epistemologico” consiste nella messa a punto di un ampliamento interdisciplinare del “metodo scientifico”, realizzato con l’onestà intellettuale di riconoscere e riscoprire le “leggi antropologiche” che governano l’uomo, con pari dignità rispetto alle “leggi del mondo fisico e biologico”; 
  • dal punto di vista della “religione” consiste nello scoprire e riconoscere che le leggi che governano “tutto l’uomo” (non solo l’uomo fisico e biologico) sono talmente “giuste”, cioè “intelligenti” e “buone”, da trasfigurare l’“impresa culturale” e “scientifica” in un’impresa di “gratitudine verso Dio Creatore”. Questa è la corretta concezione della “vera religione”: lo studioso e il lavoratore scoprono la “preghiera” personale e la società scopre il “culto” pubblico come espressione, pur limitata e inadeguata, per manifestare a Dio Creatore la “gratitudine” restituendogli tutto quello che possono, anche se mai sarà adeguato per ricambiare alla pari il dono dell’esistenza fatto da Dio all’uomo; 
  • dal punto di vista dell’“evangelizzazione” consiste nel “motivare” presso tutti gli uomini un altro “dato di fatto”, sperimentale, che emerge dalla storia dell’umanità (antica e recente): la Rivelazione e la salvezza in Cristo.

Questo “dato” consiste nel “fatto” che la “restituzione” della “giustizia del rapporto dell’uomo con Dio Creatore” è un’impresa superiore alla sole capacità umane (la storia lo documenta ampiamente con il fallimento di tutte le ideologie) e richiede un intervento diretto, nella storia, dello stesso “Dio Creatore”. E l’Incarnazione del Verbo in Gesù Cristo e la sua opera di redenzione dell’uomo sono questo intervento diretto. 

Quando Benedetto XVI sintetizza tutto ciò con la sua “frase-giudizio”: questa è l’epoca del peccato contro Dio Creatore!, riassume con poche parole precise tutto quanto abbiamo detto. Alla luce della sua sintetica affermazione, acquista un risalto impressionante, per noi che viviamo in questi nostri difficili anni, che si presentano come unici nell’intera storia dell’umanità, la definizione di “peccato originale” di san Tommaso d’Aquino, come

perdita della giustizia originale (defectus originalis iustitiae, I-II, q. 82, a. 3co)

Questa breve sentenza, per essere compresa nel suo spessore culturale e attuale per il nostro mondo, va capita alla luce della dottrina di san Tommaso d’Aquino sul peccato originale. Mi limiterò a commentare questa definizione nel secondo punto della nostra riflessione, tralasciando per ragioni di tempo e per evitare aspetti troppo tecnici gli altri aspetti. 

 

2. Secondo punto: la definizione di peccato originale nella dottrina di san Tommaso («Il venir meno della giustizia originale»)

Al di là degli aspetti filologici dell’enigmatico testo biblico di Gen 3, che sono di competenza degli esegeti, è Tommaso che ci aiuta qui a coglierne il vero significato e la portata dottrinale e teologica, oggi dimenticata, perché incompresa e quasi sempre deliberatamente rifiutata.

 

2.1. Il metodo di San Tommaso d’Aquino

Il metodo di lavoro filosofico-teologico di san Tommaso d’Aquino è stato spesso considerato in qualche modo “superato” dalle correnti filosofiche e teologiche moderne e contemporanee in quanto ritenuto troppo “oggettivistico”, “non storico”, scarsamente interessato ad una “prospettiva esperienziale”, e quindi non di rado messo in secondo piano, se non accantonato, non solo nell’ambito della ricerca, ma non di rado anche nei curricula formativi delle facoltà teologiche, con le amare conseguenze che oggi tutti abbiamo sotto gli occhi. 

Anche se ad un lettore attento e non prevenuto, i testi di Tommaso non mancano mai di offrire tratti di “finezza psicologica” e di “intelligenza dell’esperienza umana” davvero sorprendenti, insieme ad una chiave di lettura che raccorda l’“elemento soggettivo” con la sua “base oggettiva metafisica”, “antropologica” e “cognitiva”. Si tratta di una capacità di sintesi di cui oggi si avverte la mancanza e si può percepirne quindi ancora di più il valore.

In larga misura la crisi della metafisica greca e medievale, nel contesto della filosofia a partire da Cartesio, e poi con Kant e gli autori successivi, unitamente alla decadenza della Scolastica, è stata determinante nella formazione di una tale valutazione negativa dell’opera di Tommaso. Anche quando essa è stata ammirata per la sua compiutezza e consistenza non poteva non essere considerata, in quel contesto, insufficiente nelle sue premesse filosofiche, oltre che non adeguata all’attrezzatura scientifica che le scienze, comprese quelle propriamente ausiliarie alla teologia, sono in grado di offrirci oggi. 

L’inevitabile datazione delle sue concezioni scientifiche non è sufficiente, però, ad intaccarne l’“impianto logico e metafisico” che oggi sembra possa e debba essere, in qualche modo, nuovamente trovato anche a partire da una adeguata “teoria dei fondamenti” delle nostre scienze. Sorprendentemente ai nostri giorni, sono proprio le scienze che un tempo erano considerate le più “dure”, lontane e avverse alla visione aristotelica e medioevale a riscoprire, con i loro metodi e i loro linguaggi formalizzati, la necessità di raggiungere dimostrativamente dei “fondamenti logici e metafisici” ai quali non possono più rinunciare per dare consistenza ai loro stessi risultati e salvare la loro capacità di progredire ulteriormente come scienze. 

E insieme alle scienze che operano sul “piano speculativo”, troviamo anche una sorta di “emergenza pratica” che si manifesta nella progressiva diminuzione del grado di “vivibilità” della società contemporanea che mostra di avere tra le sue cause culturali scatenanti proprio la “perdita di oggettività” della nozione di “verità” e di quel fondamento etico che è la “legge morale naturale”, come il Magistero frequentemente non ha mancato di sottolineare – almeno fino a qualche anno fa – che sono due cardini del “realismo” di Tommaso. Entrambi questi fattori stanno riaccendendo, attraverso nuove vie e in varie parti del mondo, un interesse per gli scritti di Tommaso che, probabilmente ed erroneamente, non ci si aspettava ormai più. La mentalità scientifica odierna, poi, è certamente facilitata ad incontrarsi con un metodo dimostrativo, logicamente sistematico, diciamo pure “scientifico”, come quello di Tommaso, piuttosto che con un metodo puramente descrittivo e narrativo. E questo facilita anche una ricerca di tipo autenticamente interdisciplinare tra filosofia, teologia e scienze, resa possibile dal riferirsi ad un “fondamento comune” di tipo “logico-metafisico”, in vista di una visione di sintesi delle varie problematiche, corredata dai punti di vista complementari di più discipline. Tra i temi interdisciplinari più rilevanti e difficili che coinvolgono ineludibilmente la teologia, data la sua natura fondata sulla Rivelazione, troviamo certamente quello del “peccato originale”. 

Vorrei cercare, qui, di esporre, una riflessione sulle implicazioni culturali della definizione di “peccato originale” di san Tommaso. Lo comprese molto bene Karol Woytiła quando, ben prima della sua elezione al soglio di Pietro, come professore di etica, nella sua maggiore opera Persona e atto, si servì della fenomenologia per l’analisi dell’esperienza del “soggetto” umano, ma cercò i fondamenti “oggettivi” necessari per comprenderla e motivare le regole morali necessarie a governarla, nell’antropologia e nella metafisica di Tommaso d’Aquino. 

  1. In primo luogo, alcuni elementi della dottrina di san Tommaso sul peccato originale.
  2. In secondo luogo, come una sorta di possibile sviluppo, o corollario, qualche traccia di riflessione in merito ad alcune questioni di carattere interdisciplinare legate al problema della “comunicazione”, o “propagazione”, o “trasmissione” del peccato originale e alla sua “ricaduta cosmologica”. Distinguerò con l’appellativo di “corollari” questi possibili sviluppi, quando se ne presenterà l’occasione. Articolerò l’esposizione secondo il seguente schema.
    1. Una premessa sul modo generale e geniale con cui Tommaso affronta il problema del peccato originale; 
    2. La definizione di peccato originale; 
    3. Il peccato originale come peccato di natura 
    4. Le cause del peccato originale; 
    5. Gli effetti del peccato originale; 
    6. La comunicazione (trasmissione) del peccato originale.

Diversi elementi si trovano tuttavia sparsi un po’ in tutta l’opera, secondo il modo abituale con cui l’Aquinate svolge una sorta di piccolo compendio su un argomento ogni volta che ha la necessità di richiamarlo. La dizione peccatum originale ricorre più di un migliaio di volte negli scritti autentici. 

 

2.1.1. Il modo di affrontare il tema: una cristologia “rovesciata”

Prima di entrare direttamente nel contenuto dei trattati vale la pena fare un’osservazione generale sul modo in cui Tommaso affronta un tema del tutto speciale come quello del peccato originale. 

Trattandosi di un argomento non deducibile razionalmente, alla cui conoscenza si perviene attraverso la Rivelazione (pur non mancando argomenti razionali di “convenienza” che si possono accompagnare opportunamente al dato rivelato, una volta che questo sia noto), egli non può non seguire il percorso offerto dalla Scrittura e, in particolare quello paolino, ricostruendo in qualche modo “a ritroso” il percorso della cristologia: se Cristo è il “nuovo Adamo”, attraverso una sorta di cristologia rovesciata, possiamo risalire ad una certa conoscenza dell’antropologia teologica del “primo Adamo”. Se attraverso l’unico Cristo ci giunge la Salvezza, viceversa, attraverso l’unico Adamo ci è giunto il peccato che in lui ha avuto la sua origine umana. Ciò che i meriti di Cristo ci hanno restituito con sovrabbondanza, la colpa di Adamo lo aveva perduto (Cfr., In Ad Rom., c. 5, lc. 3). 

All’“unicità di Cristo” sembra dover corrispondere, secondo questa prospettiva, anche l’“unicità di Adamo”, nome che unisce in sé sia i caratteri di un singolo individuo, che quelli della prima coppia (Adamo ed Eva), che quelli dell’intera umanità. 

Tommaso propone una sua spiegazione, in chiave “metafisica”, di come in un solo uomo si unifichi l’intera natura umana o genere umano.

 

2.1.2. Una definizione di peccato originale

Possiamo utilmente partire dalla “definizione” dell’oggetto (il subiectum delle conclusioni sillogistiche) di cui egli intende trattare: il quid sit. Per poi passare, dopo averla analizzata, a dire qualcosa sul peccato originale come “peccato di natura”, sul suo “soggetto”, sulle sue “cause” e i suoi “effetti”, e su come si “comunichi” a tutti gli uomini. Ognuno di questi aspetti potrà poi essere messo a confronto anche con problematiche scientifiche con le quali oggi si viene ad interfacciare. 

Per Tommaso il peccato originale si definisce come Carenza della giustizia originale. (I-II, q. 82, a. 1, arg. 1; In Ad Rom, c. 4, lc. 1. I termini latini da lui impiegati sono principalmente carentia defectus della originalis iustitia. Termini che indicano allo stesso tempo la “perdita” causata da un singolo “atto” compiuto dall’uomo/umanità, e la “mancanza” che perdura lungo tutta la vita/storia dell’uomo/umanità, come uno “stato” o “condizione” caratterizzante).

Si tratta di una formula che egli riprende letteralmente da sant’Anselmo, differenziandosi in certa misura da sant’Agostino il quale accentua il ruolo della “concupiscenza”, elemento che l’Aquinate recupera in una diversa prospettiva. 

Tuttavia il fattore “concupiscenza” non è certamente trascurato da Tommaso, in quanto essa rientra nel peccato originale come suo “costitutivo materiale”. In questo l’approccio aristotelico, che prevede in ogni entità composta una “materia” e una “forma”, gli è di aiuto in quanto gli consente di affermare che: 

  • l’elemento “formale” del peccato originale è il “venir meno” (perdita/mancanza) della “giustizia originale” (carentia defectus originalis iustitiae); 
  • e l’elemento “materiale” del peccato originale è la “concupiscenza” (concupiscentia). Il peccato originale, in effetti, materialmente consiste nella concupiscenza, formalmente però consiste nella carenza della giustizia originale (I-II, q. 82, a. 3co).

In tal modo egli accoglie anche la prospettiva di Agostino, autore che non può non essergli maestro in teologia, ma la ricolloca completamente, dando la preminenza essenziale all’aspetto della “giustizia” che regola, in questo caso primariamente: 

  • il rapporto dell’uomo con Dio e, di conseguenza – il rapporto dell’uomo con se stesso;
  • rapporti dell’uomo con gli altri uomini
  • – e il rapporto dell’uomo con tutto il creato

Qualcosa di prezioso è venuto meno nel rapporto dell’uomo con il Creatore: il peccato originale si connota anzitutto come “mancanza di un bene originario”.

La rimozione di questo “dato storico-teologico” ha reso impossibile a tutte le filosofie, le teologie e religioni, a tutte le ideologie e utopie politiche una comprensione adeguata della storia e della condizione umana e ha compromesso, inevitabilmente e non di rado in modo drammatico, il livello di vivibilità della società degli uomini. È significativo osservare come la questione della “giustizia” che, almeno sotto il profilo socio-politico, ai nostri occhi è stata presentata regolarmente come una conquista moderno-contemporanea, e principalmente dell’ideologia marxista, sia invece stata approfondita, oltre che già da Aristotele in chiave filosofica, dai medievali e addirittura in una prospettiva teologica che la pone all’origine della condizione del genere umano, e prima ancora di quella degli angeli. 

Come ogni definizione, per essere compresa, anche quella di “peccato originale”, richiede una spiegazione puntuale dei suoi singoli termini. 

 

Carentia

Possiamo rilevare come in questo primo termine “carenza” (carentia) della definizione siano inclusi insieme due significati, come si è già accennato. 

  1. Quello di “carenza” come mancanza (carentia, privatio, defectus) di qualcosa che non c’è più perché ora manca come “effetto” di una qualche causa che lo ha rimosso; e in quanto “effetto” ci rimanda alla nozione di peccato originale “originato”, constatato come un dato di fatto che si riscontra esperienzialmente e oggettivamente nella condizione concreta di ogni uomo. 
  2. Quello di mancanza come “causa” che produce un tale effetto: mancando la causa viene meno anche l’effetto; e in quanto “causa” ci rimanda alla nozione di peccato originale “originante”. 

Ancora però non è spiegata la natura “responsabile” di tale causa, ovvero la sua natura vera e propria di peccato come “colpa”. Questa può essere meglio rinvenuta introducendo il secondo termine della definizione che è “giustizia” (iustitia). 

Iustitia

Il peccato originale è una questione di “giustizia” che è “venuta a mancare” (carentia iustitiae). La “giustizia” (il “giusto modo”), per definizione riguarda il “rapporto” di un “soggetto razionale e responsabile” con l’“altro”. Nel nostro caso: 

  • prima di tutto il “rapporto con Dio” che è il primo interlocutore di Adamo;
  • e di conseguenza “con gli esseri umani”:
    • a cominciare addirittura da “se stessi” (con la perdita del “pieno dominio di sé”)
    • e poi con gli altri uomini (ricaduta “antropologica” e “sociale” del peccato originale); 
    • e più in generale “con tutto il creato” (ricaduta “cosmologica” del peccato originale). 

La “perdita della giustizia” nel “rapporto con l’altro”, esigendo la “libera scelta” di un “essere razionale”, non può essere che a “causa” di un “atto responsabile” di una o di entrambe le parti in gioco e quindi una “colpa” (“peccato”). 

E nel “rapporto tra l’uomo e Dio” non può che essere “colpa responsabile dell’uomo”, in quanto a Dio sommamente giusto non può essere imputata per definizione alcuna ingiustizia, e quindi neppure la colpa del peccato originale. 

Dunque la perdita della giustizia originale non può che avere ragione di peccato (“colpa”) di cui è responsabile il “primo uomo”. 

Se la responsabilità ricadesse “interamente” su un terzo soggetto razionale – il demonio – sarebbe questo il colpevole dell’ingiustizia nei confronti di Dio e non vi sarebbe alcun peccato originale dell’uomo. Tommaso insiste sulla necessaria “libertà dell’uomo” nell’assecondare volontariamente il tentatore. Inoltre, la responsabilità va attribuita al “primo uomo” nel quale tutta la “natura umana” è originariamente unificata. 

 

Corollari

A partire dalla definizione di peccato originale di san Tommaso, messa anche a confronto con le nostre conoscenze scientifiche attuali, sorgono spontanee almeno le seguenti osservazioni, alle quali se ne possono aggiungere, ovviamente anche altre. Le annoto come “corollari”, o ipotesi teologiche opinabili, che cercano di comprendere la dottrina cattolica vera e propria. 

  • A noi, oggi, verrebbe spontaneo dedurre, a partire da questa impostazione, che anche se la natura umana fosse comparsa più o meno simultaneamente in più parti del pianeta, o addirittura del cosmo – “poligenismo” (in questi ultimi tempi non più così accreditato neanche come ipotesi scientifica) – temporalmente ci sarebbe comunque stato un “primo” e da questo dipenderebbe “originariamente” (originaliter) la perdita della iustitia originalis. Il problema che si pone immediatamente dopo è quello di comprendere in che modo, a partire da questo primo responsabile, tale perdita si comunichi a tutti gli altri, compresi coloro che non sono stati fisicamente generati dal primo che ha commesso il peccato. 
  • Per “primo uomo”, poi, si dovrà intendere la “prima coppia” in quanto rappresentante della natura umana nella sua completezza di genere, o il primo dei due (o Adamo o Eva in senso esclusivo), o un intero insediamento di esseri umani? La risposta che Tommaso dà concretamente a questa domanda, che egli non pone però direttamente in questo modo, è legata, oltre che alla sua esegesi della Scrittura, anche al modello della “generazione” che egli propone per spiegare la “trasmissione” del peccato originale, che dipende necessariamente dalla biologia del suo tempo; biologia che risulta essere oggi certamente inadeguata a confronto con le nostre conoscenze scientifiche. Questa gli impone di dire che se solo Eva e non Adamo avesse commesso il peccato esso non si sarebbe propagato all’intero genere umano, in quanto solo il seme maschile era considerato “attivo” nella generazione. Questo aspetto dovrà essere perciò esaminato in seguito e possibilmente accompagnato da una proposta alternativa. Stando al racconto della Genesi, preso letteralmente, sembrerebbe piuttosto di poter dire che il peccato originale viene consumato interamente solo con la complicità di entrambi (la coppia Adamo ed Eva) in quanto solo dopo il peccato di entrambi si manifestano gli effetti. Allora si aprirono gli occhi di tutti e due (Gn 3,7).

 

Originalis

Il terzo termine della definizione, “originale” (originalis) indica insieme più cose. 

  • “Originale” in quanto si tratta dello stato di giustizia nel rapporto dell’uomo con Dio (e di conseguenza con tutti gli esseri della creazione) stabilito “originariamente” dal Creatore, prima che qualcuno lo infrangesse. 
  • “Originale” nel senso che dopo la sua “perdita” (carentia) esso non è più lo “stato attuale” del rapporto dell’uomo con Dio e con tutti gli altri esseri creati e, quindi è una “condizione del passato” (delle “origini”). 
  • “Originale” nel senso che dalla colpa  del primo uomo “segue originariamente” (originaliter) in tutta la “natura” umana e quindi in tutti gli uomini la “perdita” di tale “stato primario” di “giustizia”. 

Il primo peccato corrompe la natura umana in forza di una corruzione che è propria della natura [come tale], mentre gli altri peccati la corrompono in forza di una corruzione che è propria della sola persona (I-II, q. 81, a. 2, ad 3um). 

E bisognerà cercare di comprendere come tale “condivisione” in tutta la natura umana” si realizzi, poiché dalla comprensione di questo segue anche la comprensione del modo in cui avviene la “comunicazione” del peccato originale. Tommaso tratta insieme i tre aspetti: 

    1. Quello della modalità con cui metafisicamente avviene questo essere (pertinere) nella natura piuttosto che nella sola persona, del peccato; 
    2. quello della presenza del peccato originale in ogni singolo uomo in quanto dotato di quella stessa natura umana; 
    3. quello del “modello” secondo cui avviene la “comunicazione” o “trasmissione” del peccato originale da Adamo agli altri esseri umani. 

Corollario

Per Tommaso il “monogensimo” è scontato e il “peccato originale” si “trasmette” per via di “generazione”: è la via più semplice e conforme all’esegesi e alle conoscenze scientifiche del suo tempo. 

Vale la pena notare come oggi possa essere conveniente trattare, in certa misura, distintamente questi tre aspetti, in quanto occorrerebbe trovare un modello per la “comunicazione” del peccato originale che non obblighi al monogenismo, in quanto non vincolato alla “generazione”. Questo richiederà di elaborare dei “modelli” teologici che cerchino di rendere conto sia dei dati rivelati e magisteriali che di quelli sperimentali e scientifici di cui siamo in possesso e, forse di essere anche in grado di rispondere a quesiti ipotetici scientificamente plausibili come quelli legati forme di vita “corporea intelligente” extraterrestre, o a quella prodotta mediante la clonazione. 

Se il modello della “generazione” sembra risultare “troppo forte” e vincolato al “monogenismo”, in alternativa quello della semplice “solidarietà” (in senso sociologico) che nasce dalla “appartenenza” alla collettività umana appare “troppo debole” metafisicamente, in una prospettiva che si possa considerare tomistica. La via intermedia parrebbe essere quella di una “partecipazione” della natura umana in senso metafisico che possa essere attuata e propagata per una via diversa a quella della generazione. Ma questi sono temi riservati alla ricerca teologica e non intendono essere oggetto approfondito della presente riflessione che non pretende di affrontare “problemi aperti”, quanto semplicemente richiamare uno dei temi più censurati dalla cultura dei nostri giorni e quasi sistematicamente dalla predicazione dei nostri tempi. 

 

2.1.3. La formula “iustitia originalis”

Esaminati separatamente i tre termini della definizione (carentia, iustitia, originalis) presi singolarmente, nei rispettivi trattati sulla “virtù” e il “peccato” e sulla “giustizia”, che Tommaso dà qui per noti, occorre esaminare come egli spieghi la formula complessiva iustitia originalis che entra nella definizione del peccato originale. 

Che cos’è la “giustizia originale”? 

È ciò per cui: con [un preciso] “equilibrio” la “ragione” dell’uomo era sottoposta a “Dio”, le “potenze inferiori” lo erano alla “ragione” e il “corpo” all’“anima” (In Ad Rom, c. 4, lc. 1).

La “giustizia originale” si caratterizza, allora, come quello “stato” in cui l’uomo si trovava “inizialmente”, che faceva sì che vi fosse una “perfetta armonia” nella “dipendenza” (“giusto rapporto”): 

  • dell’uomo da Dio;
  • e, entro l’uomo stesso, delle sue caratteristiche animali (corporee) da quelle razionali (spirituali).

L’infrangersi della pienezza del “giusto rapporto” di dipendenza dell’uomo con il Creatore comporta il venir meno anche dell’“equilibrio nel controllo” delle facoltà corporee da parte di quelle razionali. 

E non si tratta solo di una dipendenza obedienziale in senso “morale”, ma anche “fisico”: il controllo è fisiologicamente, emotivamente reso instabile. 

In conseguenza di tale carattere di carentia, di mancanza non momentanea ma “permanente”, il peccato originale viene ad avere non appena il carattere di un “atto” (actus) momentaneo, che passa e può essere in qualche misura dimenticato dal soggetto nei suoi effetti, ma produce una sorta “lesione permanente” e, quindi viene ad avere carattere “abituale” (habitus) nel soggetto stesso. 

In più, esso ha carattere di “peccato di natura” nel senso che non riguarda (sia nelle cause che negli effetti) un singolo uomo, ma la “natura umana” come tale e quindi ogni uomo. 

Per di più esso ha carattere “storico” per cui riguarda ordinariamente tutti gli uomini nella catena temporale che si estende dal primo (Adamo) all’ultimo nato. 

È uno “stato” della natura, nel senso di disposizione di una natura che è composta da molti individui (I-II, q. 82, a. 1co).

 

2.2. Problematiche conseguenti alla definizione

A questo punto si presentano diversi problemi che richiedono di essere affrontati. 

  1. Che cosa significa “peccato di natura”? In che modo tutti gli uomini sono contaminati dal peccato come “colpa” e non solo dai suoi effetti come una “pena” ereditaria. 
  2. In che modo il peccato originale è simile al peccato attuale e in che cosa si differenzia da esso? 
  3. Quali sono le cause del peccato originale? 
  4. Quali sono gli effetti del peccato originale? 
  5. Qual è il soggetto del peccato originale? 
  6. In che modo si trasmette dal primo uomo a tutti gli altri uomini? 

E altre problematiche ancora che sono ad esso connesse. Accennerò a ciascuna di queste. 

 

2.2.1. Il peccato originale come “peccato di natura”

Tommaso deve spiegare il “dato dogmatico” (“dottrinale”) secondo il quale il peccato originale, commesso dal primo uomo, ricade sulla “intera natura umana” 

  • sia come “pena”, cioè nei suoi “effetti”;
  • che come “colpa”, cioè nella partecipazione alla sua “causa”. 

Ovvero in che modo il peccato “originale” si differenzia dai peccati “attuali” (e da quelli “abituali” o “vizi”) del “singolo” uomo e che non intacca la natura comune a tutti gli uomini, ma principalmente solo la persona di chi li commette e solo “accidentalmente” coinvolge gli altri uomini e in certa misura il creato. 

 

La partecipazione della natura umana nel singolo uomo

Per chiarire in che modo il peccato originale è un “peccato di natura” egli ricorre al paragone tra la “persona” (la sua “volontà”) e le “membra” del suo corpo. 

Bisogna stare bene attenti, però, che per Tommaso questo non è una semplice “immagine” descrittiva, una “metafora”, ma un’“analogia” fondata su una “realtà oggettiva”, su una base metafisica, che egli sintetizza con la formula ripresa da Porfirio. 

Participatione speciei multi homines intelligantur quasi unus homo (I-II, q. 81, a. 1). 

Formula difficile da rendere in italiano per l’ambiguità e simultaneità del dativo e del genitivo (speciei) sulla quale può giocare il latino a differenza dell’italiano. 

Potremmo tradurre indifferentemente: 

In forza della partecipazione alla specie [umana] la molteplicità degli uomini può essere pensata come un solo uomo. 

Oppure: 

In forza della partecipazione della specie [umana] la molteplicità degli uomini può essere pensata come un solo uomo. 

La prima traduzione mette in luce l’aspetto della “solidarietà di appartenenza” sociologica, mentre la seconda traduzione mette in luce il “fondamento metafisico” di cui tale solidarietà è un effetto. Per Tommaso sono presenti entrambi. 

Gli uomini sono come un solo uomo in Adamo per la comunanza di natura. 

Tutti gli uomini che nascono da Adamo, possono considerarsi come un solo uomo, in quanto convengono nella natura [umana], che ricevono dal progenitore (I-II, q. 81, a. 1co)

In questo modo egli afferma una “solidarietà” tra tutti gli uomini che è sì “morale” e “sociologica” (gli uomini sono accomunati “di fatto” in un sodalizio da una medesima condizione che li porta a solidarizzare), ma è “metafisicamente” fondata sulla “partecipazione” di/ad unica “natura” (“genere”) che li costituisce tutti come “animali razionali”. 

L’appartenenza ad una specie (comunanza “di natura”) non è riducibile all’appartenenza di un “oggetto” ad una “collezione di oggetti” che potrebbero essere anche tra loro eterogenei. 

Per cui la solidarietà “morale” e “sociale” non è la spiegazione della “comunicazione del peccato originale”, ma piuttosto l’effetto di una “comunanza di natura”, il possesso della quale costituisce il singolo uomo nello “stato” di peccato originale, sia quanto alla “colpa” che quanto alla “pena”. 

È interessante notare come nel De malo, Tommaso metta in particolare evidenza con l’uso della parola collegium, che potremmo forse tradurre “collettività”, questo aspetto di “solidarietà sociale”. 

Ogni uomo può essere considerato in due modi:

  • in un primo modo in quanto è una persona singola;
  • in un secondo modo in quanto è parte di una collettività. 

E un atto può riguardarlo secondo entrambi i modi. 

  • Lo riguarda come singola persona, per quell’atto che egli compie di proprio arbitrio e da se stesso. 
  • Lo riguarda come parte di una collettività, per quell’atto che egli non compie da se stesso, né per il proprio arbitrio, ma che è compiuto dall’intera collettività, o dalla maggioranza, o da chi ne è a capo. 

Per cui si dice che quello che fa colui che è a capo, l’ha fatto la cittadinanza […]. In questo senso l’intera collettività umana si può considerare come fosse un solo uomo, in quanto i diversi uomini, con i loro diversi incarichi, sono come le diverse membra di un unico corpo fisico. Così, quindi, la molteplicità di tutti gli uomini, che hanno ricevuto la natura umana dal progenitore, sono da considerarsi come un’unità collettiva (De malo, q. 4, a. 1co)

Ma Tommaso si affretta subito a precisare, per evitare l’“estrinsecismo sociologico”: 

o meglio, come l’unico corpo di un solo uomo. E in questa ciascun uomo-moltitudine, compreso Adamo stesso, può essere considerato o come persona singola, o come un membro di quella moltitudine che deriva da uno solo per origine naturale (ibidem). 

È questo fondamento metafisico che consente a Tommaso di istituire un’“analogia” oggettivamente fondata (cum fundamento in re) e non come una semplice immagine. 

E l’analogia è questa: come il corpo è parte costitutiva della persona e la persona con la sua volontà razionale determina gli atti delle membra, così i singoli uomini partecipano della natura umana come ad una specie unica, in cui la parte principale (il primo uomo) è abilitata a compiere alcune scelte (non tutte, perché la nostra libertà rimane per tutte le altre scelte). 

Si tratta di un paragone che va oltre la solidarietà in senso di appartenenza ad una collettività. Così Tommaso espone questa teoria. 

Ma rimane una questione particolarmente importante: se il venir meno della giustizia originale in coloro che derivano dal primo genitore possa avere ragione di colpa. Ora si presenta come qualcosa che ha ragione di colpa, come si è già detto in precedenza, un male che può dirsi colpevole in quanto il compierlo è in potere di colui al quale viene imputato come colpa. E nessuno viene incolpato di quello che non è in suo potere di fare o non fare. Non è in potere di chi nasce il nascere con la giustizia originale o senza di essa: per cui sembra che questa mancanza non possa avere ragione di colpa. La cosa si può risolvere semplicemente distinguendo tra persona e natura. Così come in una persona ci sono molte membra, così nell’unica natura umana ci sono molte persone, per cui in forza della partecipazione alla/della specie molti uomini sono da intendersi quasi come un solo uomo, come dice Porfirio. Riguardo al peccato del singolo uomo che commette peccati diversi con le diverse membra non si richiede la volontarietà di ciascuna di quelle che realizzano il peccato, ma la volontà della parte principale dell’uomo, cioè della sua parte intellettiva. La mano non può non colpire e il piede non camminare se la volontà lo comanda. In questo modo il venir meno della giustizia originale è un peccato di natura, in quanto ad essa deriva dal disordine della volontà del primo principio della natura umana, cioè del progenitore. E così è volontario come un abito relativo alla natura, per volontà del primo principio di tale natura, e passa in tutti quelli che da esso ricevono la natura umana, come fossero in certo modo sue membra. In questo senso viene detto peccato originale, perché giunge fino ai posteri dal progenitore per il suo essere origine (Comp. Theol., L. 1, c. 196)

Il primo uomo è qui come il “capo” di quel “corpo” che è l’intero corpo sociale dell’umanità. Il parallelo con la cristologia in cui Cristo, nuovo Adamo, è il “capo” del corpo che è la Chiesa e della nuova creazione a partire dalla quale viene ricostruita l’antropologia è piuttosto evidente. In questo Tommaso segue attentamente lo schema paolino nel suo commento alla lettera ai romani, ove osserva proprio che 

Vi sono infatti diverse similitudini tra Cristo e Adamo (In ad Rom., c. 5, lc. 4). 

È importante osservare come Tommaso parli espressamente di “partecipazione” senza specificare del tutto, per ora, il “modello” con cui ne spiega l’attuazione. Ù

 

Corollario

Quest’ultimo dato è interessante perché apre, “dal punto di vista logico” (possibilità che potrebbe eventualmente risultare preclusa, invece, dal punto di vista dogmatico dottrinale, alla luce del Magistero) la possibilità di non fare la scelta, che egli fa poi, di adottare il modello della “generazione” per risolvere il problema della “trasmissione” del peccato originale. Per Tommaso la generazione è il modo in cui la “materia” del corpo, indebolita dal peccato originale nella sua capacità di dipendere perfettamente dall’anima razionale, viene veicolata da un individuo all’altro e, unendosi all’anima spirituale – creata direttamente da Dio senza peccato – la contagia con il peccato originale, all’atto della sua unione con il corpo. 

Ma a noi, oggi, parrebbe legittimo domandarsi: il peccato originale ha reso solo la “materia del corpo” del primo uomo in qualche misura insubordinata alla sua anima razionale, o ha avuto lo stesso effetto in qualche modo sulla “materia in quanto tale” (tutta la materia!), diminuendo il dominio che l’uomo ha su di essa? 

In effetti la scienza odierna ci dice che la materia di cui un corpo vivente è costituito subisce un ricambio continuo – che giunge più volte ad essere completo – durante la sua esistenza; inoltre nella materia sono presenti “proprietà d’insieme”, che la rendono per certi aspetti un tutt’uno, pur non mancando, soprattutto su scala macroscopica e umana, delle proprietà individuanti che fanno sì che un corpo sia determinato da una ben precisa “forma”. Sembrerebbe, allora, che non sia fuori luogo pensare che possa essere la “materia” in quanto tale (“ricaduta cosmologica” del peccato originale) ad essere resa imperfetta nella sua dipendenza dall’anima umana, o addirittura da ogni altra forma che possa attuarla e non semplicemente quella di un singolo corpo umano, quasi fosse confinata in esso senza scambi con il resto del mondo. 

“Ogni materia” verrebbe in tal modo ad essere veicolo del peccato originale e non solo quella trasmessa biologicamente dai genitori ai figli. Ma di questo dovremo tornare ad occuparci in seguito. 

 

2.2.2. La differenza tra peccato attuale e peccato originale

Quasi come un complemento viene poi messa a fuoco, dall’Aquinate, mediante una seconda analogia di proporzionalità propria, anche la differenza tra peccato attuale e peccato originale. 

Il peccato attuale sta al singolo uomo come il peccato originale sta alla natura (specie) umanaCome il peccato attuale è un peccato della persona, in quanto viene commesso per volontà della persona del peccatore, così il peccato originale è un peccato di natura, che è stato commesso per volontà del principio della natura umana (In Ad Rom., c. 5, lc. 3)

 

2.2.3. Le cause del peccato originale

Per quanto riguarda le cause del peccato originale, Tommaso spiega, seguendo la dottrina della Chiesa, come vi sia il concorso di una duplice causa nel peccato originale: l’una da parte del “tentatore” (il demonio), l’altra da parte della “volontà umana”. 

  • Da parte del demonio egli chiarisce con molta precisione come il tentatore non intenda ottenebrare la ragione umana fino a togliere la libertà all’uomo. 

Il diavolo [. . . ] non può obbligare per necessità a commettere un peccato (I-II, q. 80, a. 3co)

Altrimenti l’uomo, non essendo libero ma costretto, non sarebbe più responsabile e quindi non poterebbe essere considerato peccatore. 

Se la ragione gli viene totalmente legata, qualunque cosa l’uomo faccia, non può essergli imputata come peccato (ibidem). 

Per cui l’uomo deve essere condizionato (tentato) dal demonio ma non fino al punto di non essere lasciato in condizione di decidere liberamente se dare il suo consenso alla tentazione oppure di negarlo. 

  • Da parte dell’uomo la causa che lo muove a dare il libero consenso e quindi a compiere il peccato di origine è la “superbia”. 

Il primo peccato dell’uomo è consistito nel fatto che ha presunto di raggiungere [da solo] un bene spirituale che è al di sopra della sua portata. E questo è proprio della superbia. Per cui risulta chiaro che il primo peccato fu di superbia (II-II, q. 163, a. 1co)

Il presumere di raggiungere la “somiglianza” con Dio con le sue sole forze naturali (II-II, q. 163, a. 2co).

E questo: 

  • sia sul versante della “conoscenza” del bene e del male mettendo in discussione il giudizio che Dio aveva dato in proposito; 
  • che sul versante “pratico” di ciò che occorre compiere per ottenere la piena beatitudine. 

Leggendo i testi si nota immediatamente come Tommaso assegni, come si è già detto, una grande responsabilità all’uomo, non scaricando in alcun modo il peso del peccato originale dell’uomo sul peccato degli angeli decaduti: quest’ultimo viene trattato a parte trattando degli angeli e non sembra avere particolari ricadute sul mondo materiale. 

Questa grande responsabilità dell’uomo trova una motivazione ulteriore che la rafforza – oltre al fatto che l’uomo deve essere libero per poter essere responsabile e colpevole pur essendo tentato dal demonio – nel fatto che, nello stato di innocenza, l’uomo era meglio dotato di noi per resistere alla tentazione. 

L’uomo nello stato di innocenza avrebbe potuto senza alcuna difficoltà resistere alla tentazione (II-II, q. 165, a. 1, ad 3)

 

Corollario 

Questa grande responsabilità dell’uomo parrebbe avere un peso notevole anche in ordine alla “ricaduta cosmologica” del peccato originale, in quanto l’uomo è una creatura anche “corporea” (“materiale”) e non solo “spirituale” come gli angeli, per cui il disordine del peccato originale, in lui, inerisce direttamente alla “materia”, cosa che non si può dire dell’angelo che non è legato per natura ad alcun elemento materiale, ma può avere con essa solo un rapporto causale estrinseco accidentale. 

In effetti, se ci si attiene alla prospettiva tomista, non sembra che si possa spiegare la presenza della morte degli esseri viventi e dell’evoluzione fino alla comparsa dell’uomo (e quindi precedente al peccato originale dell’uomo) documentata dalle osservazioni scientifiche, come fosse conseguenza del peccato degli angeli, né come conseguenza del peccato di un essere razionale (e quindi spirituale) e corporeo insieme, quale è l’uomo. Tommaso, in questo fa ricorso dalla concezione ilemorfica che gli fornisce la sua impostazione aristotelica, che prevede che la materia sia corruttibile per la sua stessa natura, in quanto composta, e non in conseguenza del peccato né degli angeli né dell’uomo. L’uomo fu originariamente preservato dalla morte in forza di un dono preternaturale. 

 

2.2.4. Gli effetti del peccato originale

La problematica delle “conseguenze” (“effetti”) del peccato originale apre il capitolo che oggi chiameremmo della “ricaduta antropologica e cosmologica” del peccato di origine. 

 

La morte e le infermità fisiche 

Innanzitutto c’è il problema della morte e delle infermità fisiche. L’Aquinate riprende necessariamente l’affermazione di san Paolo. 

Al contrario secondo l’affermazione dell’Apostolo, in Rm 5, il peccato è entrato in questo mondo a causa di un solo uomo, e attraverso il peccato anche la morte (II-II, q. 164, a. 1sc; I-II, q. 85, a. 6)

Di fronte a questa dichiarazione sappiamo come si sia posta per i teologi la domanda se la morte dell’uomo, come conseguenza del peccato originale, vada intesa in senso anche fisico come divisione dell’anima dal corpo, o solamente in senso morale in quanto il peccato è una sorta di “morte dell’anima” (in quanto perdita della “grazia” che è una certa forma di “partecipazione” alla vita divina). 

San Tommaso la intende anche in senso fisico in riferimento all’uomo, operando una distinzione che gli è resa evidente grazie al suo approccio aristotelico. 

La morte è [un fatto] 

  • naturale, per quanto riguarda la condizione della materia,
  • ed è una pena, a causa della una perdita del beneficio divino che preservava da essa (II-II, q. 164, a. 1, ad 1).

Si deve dire allora che la morte: 

  • è un fatto “naturale” per il “corpo” in quanto è fatto di “materia”, perché la materia, essendo “composta”, è per sua natura “corruttibile” essendo passibile di trasformazioni che la dissociano e la riassociano secondo diverse forme; 
  • mentre non è un fatto naturale per la “forma”, cioè per l’“anima” dell’uomo: l’anima umana “razionale” è “incorruttibile” per sua natura. 

Tommaso ha spiegato nel trattato sull’uomo, ove elabora quella che oggi chiameremmo la sua “teoria cognitiva”, che per poter essere razionale l’anima (oggi diremmo, con il linguaggio delle teorie cognitive, la “mente” in quanto espressione dell’anima sotto il profilo cognitivo) deve essere “immateriale”, e “spirituale”78 ovvero “incorruttibile” e quindi “immortale”. 

Ciò che la “depotenzia”, impedendola nel suo atto di dare piena vitalità al corpo (l’infermità, la morte) è contro la sua natura.

Ciò è spiegato con maggiore ampiezza nella Summa Contra Gentiles

Si potrebbe dire tuttavia che tali difetti, sia quelli del corpo che dello spirito, non siano da considerarsi come pena, ma come naturali, in quanto necessaria conseguenza della materia. È necessario, infatti, che il corpo umano, essendo un composto di elementi contrastanti, sia corruttibile [. . . ]. 

Tuttavia, considerando le cose correttamente, molto probabilmente si potrebbe arrivare a ritenere, posto che vi sia una Provvidenza divina che abbia disposto le cose in modo da portarle al livello di perfezione ad esse adeguato, che Dio abbia congiunto una natura superiore ad una inferiore per dominare quest’ultima, e che se vi fosse, per un limite della natura, un qualche impedimento a questo dominio, le sarebbe stato tolto grazie a un beneficio speciale di origine soprannaturale. 

Perciò, essendo l’anima razionale di una natura superiore a quella del corpo, sarebbe stata congiunta al corpo in una condizione tale che non vi potesse essere in esso qualcosa di contrastante con l’anima, grazie alla quale lo stesso corpo può vivere (CG, L. 4 c. 52, n. 2)

 

Corollario

Tutto questo sembra autorizzarci a dire che per Tommaso la morte dei viventi “non razionali” (piante e animali) non è una conseguenza del peccato originale, in quanto essi non sono dotati di anima incorruttibile e quindi la loro morte si doveva verificare come un fatto naturale anche prima del peccato di Adamo. E ciò, tra l’altro, è del tutto compatibile anche con un’evoluzione che progredisce dalle prime forme di vita fino a quella che è in grado, per il suo livello di “complessità” organica, di ricevere e far esprimere le facoltà razionali dell’anima umana creata direttamente da Dio per ogni individuo della specie. 

Anche secondo la Scrittura la morte pare una cosa nota prima del peccato originale, altrimenti i progenitori non avrebbero potuto comprendere neppure il comando di Dio: 

Del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete (Gen 3,3). 

E si potrebbe intendere: morirete anche voi come gli altri animali e le piante. Diversamente l’espressione «morirete» sarebbe stata per loro inafferrabile. E sarebbe anche incomprensibile il comando di mangiare per nutrirsi dato ai progenitori e la stessa legge del nutrirsi valida per tutti gli animali, che comporta la morte dell’essere di cui ci si ciba. 

Poi Dio disse: «Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra e ogni albero in cui è il frutto, che produce seme: saranno il vostro cibo. A tutte le bestie selvatiche, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli esseri che strisciano sulla terra e nei quali è alito di vita, io do in cibo ogni erba verde». E così avvenne (Gen 2,29-30). 

Allora si comprende meglio anche la ragione (si tratta di un “argomento di convenienza”) per cui l’uomo ebbe i doni preternaturali. 

Era conveniente che una creatura (l’uomo e solo l’uomo) dotata di un corpo (per natura sua “mortale”) e dotata insieme di un’anima razionale (per natura sua “immortale”) fosse potenziata da doni preternaturali che garantivano all’uomo (e solo all’uomo) nella sua integrità, quindi con il suo corpo, l’immortalità. 

Beneficio che solo all’uomo, per questa sua singolare natura duale poteva essere offerto convenientemente. 

Dio a cui ogni natura è sottomessa, nel predisporre l’essere umano supplì a questo limite della natura [del corpo] e con il dono della giustizia originale diede al corpo una sorta di incorruttibilità (I-II, q. 85, a. 6co). 

E così: 

L’uomo era incorruttibile e immortale non perché il suo corpo fosse di per sé dotato della incorruttibilità, ma perché era stata immessa nell’anima la capacità di preservarlo dalla corruzione (I, q. 102, a. 2co). 

Gli altri viventi, infatti, non essendo dotati di una forma (anima) “razionale”, quindi incorruttibile ovvero immortale, non ne avevano l’esigenza; mentre gli angeli, essendo per loro natura incorporei e quindi incorruttibili, possedevano già per natura l’immortalità e non necessitavano di riceverla come un dono oltre la natura (preter-naturale). 

Dalla morte l’uomo, e solo l’uomo, poté essere preservato, prima del peccato originale, in forza dei doni preternaturali che perse con il peccato. 

E questo non comporta la conseguenza ridicola che gli uomini sarebbero diventati così numerosi da non trovare più spazio sul pianeta Terra (o nel cosmo), in quanto si può ragionevolmente ipotizzare – e Tommaso stesso lo fa – una “transizione” dallo stato preternaturale ad una condizione di vita eterna “impeccabile” gloriosa come quella attuale dei risorti in Cristo con il loro corpo. 

Un corpo che non occupa necessariamente uno spazio, così come non lo occupa neppure il corpo reale di Cristo nell’Eucaristia. E anche di questo Tommaso ha trattato nella sede appropriata. 

 

La perdita o diminuzione di alcuni beni di natura 

Tommaso spiega anche come, dopo il peccato originale: 

  • i principi costitutivi (“metafisici”) della natura umana rimangono “intatti”, diversamente il soggetto uomo verrebbe meno e scomparirebbe totalmente o si tramuterebbe in qualcosa che non è più uomo; 
  • mentre l’inclinazione alla virtù è “ridotta” in quanto la dipendenza delle potenze fisiche e psichiche dall’anima razionale è compromessa e l’anima stessa non è più elevata dalla grazia; 
  • la “giustizia originale” è “interamente perduta”. 

E questo comporta quattro ferite alla natura umana che sono 

l’infermità, l’ignoranza, la malizia e la concupiscenza (I-II, q. 85, a. 3)

La “concupiscenza”, quindi viene ad essere collocata da Tommaso al livello delle “conseguenze” del peccato originale, piuttosto che tra le “cause”. 

La natura umana dunque è compromessa e non può reintegrarsi da sola, ma non è interamente corrotta. Si tratta di una posizione equilibrata che evita gli estremi del pelagianesimo da una parte e di quella che sarà poi la posizione di Lutero dall’altra. 

 

2.2..5. Il soggetto e la comunicazione del peccato originale: la ricerca di un “modello”

Il modo secondo cui san Tommaso affronta il problema della “comunicazione” del peccato originale dal primo uomo a tutti gli uomini, va esaminato con particolare attenzione. Come accade, del resto, anche per altri aspetti della dottrina tomista, se è vero che vi sono elementi datati, perché legati alle conoscenze scientifiche ed esegetiche del tempo, è vero anche che la modalità di affronto delle problematiche fa emergere una precisione di linguaggio e una logica talmente rigorosa, che permettono di decantare gli elementi datati, dall’impianto logico-metafisico e teologico del problema, rendendo possibile un positivo utilizzo attuale di quest’ultimo. Questo sembra valere anche nel caso della dottrina del peccato originale. 

Incominciamo con l’osservare che il peccato di Adamo è detto “originale” in quanto si trasmette ad altri 

per originem (I-II, q. 81, a. 1pr).

Per quanto riguarda la “comunicazione “del peccato originale Tommaso afferma che 

il primo peccato del primo uomo passa “originariamente” nei posteri (primum peccatum primi hominis “originaliter” transit in posteros, I-II, q. 81, a. 1co)

È importante notare come egli utilizzi con grande attenzione i termini del linguaggio: il termine originaliter  dice solamente che il peccato originale, condiviso per natura da tutti gli uomini, ha avuto la sua “origine” in Adamo, e non si impegna ancora con un “modello” che cerchi di descrivere il “modo” in cui può fisicamente/metafisicamente attuarsi tale “comunicazione”. Tommaso usa termini come traducere, derivare, transire, ecc., per indicare questa “comunicazione”. 

La ricerca di un “modello teologico-metafisico” rappresenta, dal punto di vista logico, il passo successivo dell’indagine. 

Allo scopo occorre tenere conto che sono in gioco i seguenti dati. 

  1. Il “peccato originale” è un peccato di “natura”, e quindi esso si trasmette con la condivisione della “natura” umana stessa, ovvero con la partecipazione alla/della specie umana, il che coinvolge una “materia” e una “forma”. 
  2. La forma è l’anima individuale che, creata sana da Dio, ha poi deliberatamente compiuto, in Adamo, il peccato mediante le proprie facoltà razionali (intelletto e volontà). 
  3. La materia è nel corpo che, unito all’anima, decade con la perdita dei doni preternaturali tornando ad essere corruttibile, secondo la sua natura non più elevata. 
  4. L’anima è creata direttamente e immediatamente da Dio per ogni singolo uomo e non può trasmettersi da un individuo all’altro (rifiuto del “traducianesimo”).

Rimane dunque che il “soggetto” del peccato originale è l’anima nella sua essenza, ma il suo veicolo è la materia corporea decaduta a causa del suo legame con una forma decaduta. 

A questo punto si propone un “modello” per questa modalità di partecipazione che tenga conto di tutti questi dati. E Tommaso propone quello della “generazione” che si presentava come il più semplice, il più coerente con l’esegesi di allora e a quel tempo non poneva problemi rispetto alle concezioni scientifiche. 

La proposta di Tommaso è quindi: 

La natura umana si comunica in virtù del seme dal genitore alla prole, insieme alla infezione della natura. Da ciò deriva che colui che nasce è compartecipe della colpa del progenitore, poiché da lui scaturisce la natura mediante un processo di generazione
(I-II, q. 81, a. 1, ad 2)

 

Corollario

L’affronto del problema, a questo punto, è già “interdisciplinare” in quanto Tommaso fa intervenire anche le conoscenze scientifiche del suo tempo per cercare di descrivere il “processo”. Sotto questo aspetto, evidentemente, Tommaso può e deve essere rivisto in quanto le conoscenze scientifiche oggi sono diverse da quelle di allora, che prevedevano la parte attiva della generazione nel solo seme maschile. Rimane valida, però, l’impostazione metafisica e teologica alla quale ci si può utilmente rifare anche oggi. 

Il modello della “generazione” può apparire anche troppo restrittivo di fronte al dato scientifico, in quanto troppo vincolato al “monogenismo” – per altro ultimamente ripreso in seria considerazione dal punto di vista scientifico, in base agli indizi sperimentali – sia in ordine alla comparsa della vita umana sulla Terra, sia nell’ipotesi, forse per ora ancora remota, di una possibile vita extraterrestre corporea intelligente (metafisicamente e teologicamente quindi “umana”). 

Se Tommaso non ha avuto più volte difficoltà ad avventurarsi in congetture logicamente possibili anche se concretamente molto lontane dall’esperienza, non pare illegittimo anche per noi azzardarci a fare altrettanto…

Se la “comunicazione” del peccato originale è legata alla materia e l’anima umana – creata incontaminata direttamente da Dio per ogni singolo uomo – lo contrae in quanto forma che si unisce alla materia organizzandola in un corpo individuale, allora, si può anche ipotizzare che sia “tutta la materia”, come tale, ad essere indebolita nella sua capacità di ricevere la forma, e non solamente la materia del corpo del genitore. 

E si potrebbe addirittura ipotizzare che la materia venga indebolita non solo nella sua capacità di ricevere la “forma razionale” (“anima umana”), ma anche ogni altra “forma” non razionale. Questo comporterebbe una “ricaduta cosmologica” non solo sul corpo umano ma anche su tutta la materia del cosmo che subirebbe il disordine che osserviamo: ribellione della natura contro l’uomo, violenza acuita tra gli animali, sofferenze e patologie, possibili squilibri anche nella materia non vivente che si rivolgono contro l’uomo, ecc. 

Allora anche gli uomini non discendenti direttamente da Adamo, compresi gli eventuali esseri razionali corporei extraterrestri (!), e i “cloni umani” se venissero realizzati, contrarrebbero il peccato originale allo stesso modo degli altri uomini. Questa ipotesi certamente si distanzia dalla posizione di Tommaso che opta per il modello della generazione, ma risolve anche alcuni problemi che al suo tempo non si ponevano. 

Sembrerebbe legittimo, dunque, ipotizzare che sia la materia come tale a veicolare una minore capacità ricettiva della forma impedendole il completo dominio di essa e non la forma non razionale presente nel seme come principio attivo della generazione. E questo indebolimento ci sarebbe nei confronti di ogni “forma” inerente ai corpi non viventi come a quelli viventi, ma che solo nell’uomo, in quanto essere razionale, potrebbe avere ragione anche di colpa. In questo modo il detto paolino: 

Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo
(Rm 8,22-23)

acquisterebbe un senso ancora più pieno e chiaro. Il modello tomista della generazione come Tommaso lo conosceva, secondo la biologia aristotelica prevedeva un ruolo attivo solamente da parte del seme maschile è oggi falsificato dalle cognizioni della nostra scienza. Qualora lo si seguisse ai nostri giorni dovrebbe essere comunque modificato attribuendo un ruolo attivo alla pari ai due gameti che si uniscono per formare l’embrione come una nuova entità sostanziale, dotata di una forma autonoma che non è quella di nessuno dei due gameti, né deriva da essi, ma è creata immediatamente da Dio per ogni singolo uomo, come il Magistero afferma. 

Il modello tomista della generazione come Tommaso lo conosceva, secondo la biologia aristotelica prevedeva invece che il seme maschile fosse in qualche modo già il vero embrione al quale la madre forniva solo la materia per accrescersi ed evolversi. Tale embrione doveva essere dotato di una “forma” animale pre-umana derivante dal seme maschile (il principio attivo formale), fino a che esso avesse raggiunto un livello di complessità organica sufficiente a ricevere un’anima razionale umana (teoria dell’animazione ritardata). Così l’Aquinate spiegava come 

Secondo il Filosofo nel IV libro De animalibus, cap. 2, il corpo deriva dalla femmina, mentre l’anima proviene dal maschio; ciò non significa che sia l’anima razionale a trasferirsi, ma che nel seme [maschile] è presente l’informazione che, negli altri animali, fa emergere l’anima sensitiva e nell’uomo organizza il corpo e prepara alla ricezione dell’anima razionale (II Sent., d. 31, q. 1, a. 2, ad 4um)

Se l’idea dell’informazione che fa emergere la capacità sensitiva è molto vicina alla moderna idea di “complessità”, di “emergenza” di un livello di “organizzazione” ordinato e gerarchizzato, ciò che oggi è smentito scientificamente è l’identificazione dell’embrione con il seme maschile. In effetti l’embrione, risultante dalla fusione dei due gameti, dotati di un pari livello attivo nel comporre l’informazione, è una nuova sostanza fin dall’inizio, un “tutto” irriducibile alle due parti componenti capace di un’attività di sviluppo e mutazione inesistente in ciascuna di esse. Questa attività richiede una mutazione sostanziale che fa emergere una nuova forma. Negli animali tale nuova forma è quella della specie ed è la stessa fin dal concepimento per tutta la vita. E nell’uomo? Perché nell’uomo dovrebbe essere diversa, pre-umana all’inizio e poi umana a partire da un certo stadio dello sviluppo embrionale? 

In alternativa al “modello della generazione” si adotterebbe allora quello secondo cui, perdendo i doni preternaturali, la natura umana, nell’anima del primo uomo, perderebbe quel “dominio” superiore su tutta la materia, che la rendeva capace di rendere incorruttibile la materia del corpo ad essa unito e non ostile, ma asservita, tutta la materia ad essa non unita, presente nel mondo vivente come in quello non vivente. Tutta la materia sarebbe allora “portatrice” di tale depotenziamento nel suo rapporto con l’anima, creata perfetta da Dio, non rispondendo più all’anima con l’originaria docilità. 

Tommaso tratta sì della questione del “dominio” dell’anima in quanto “forma” della “materia” del “corpo” sulla materia in quanto tale, senza però spingersi fino a questo punto, perché non ne ha la necessità. 

Un primo significato in cui egli parla del dominio dell’uomo sul creato e, in particolare sulla materia, è “estrinseco” (dominio come comando sugli animali, come uso degli oggetti inanimati) e non ha a che fare con il dominio dell’anima in quanto forma del corpo. E questo non è qui di pertinenza rispetto al nostro problema. 

Un secondo significato è proprio quello del dominio della “forma” (anima) sulla “materia” che essa controlla costituendola e organizzandola nel corpo individuale. In un passo della Summa Contra Gentiles già richiamato in precedenza, l’Aquinate impiega proprio il termine “dominio”. Si potrebbe ritenere 

che Dio abbia congiunto una natura superiore ad una inferiore per dominare quest’ultima, e che se vi fosse, per un limite della natura, un qualche impedimento a questo dominio, le sarebbe stato tolto grazie a un beneficio speciale di origine soprannaturale (GG, L. 4 c. 52, n. 2)

L’ipotesi che qui abbiamo azzardato non è che un’estensione di un tale dominio dell’anima come forma sulla materia come tale.

 

Conclusione

Come si è visto abbiamo cercato di esaminare la trattazione del problema del peccato originale condotto da san Tommaso d’Aquino nelle sue opere, con una particolare attenzione rivolta alle problematiche interdisciplinari che emergono oggi dalla ricerca scientifica. 

E ci sembra di poter concludere che l’impianto metodologico e metafisico dell’Aquinate vada ben oltre i limiti del suo tempo. La definizione di peccato originale come carenza della giustizia originale, l’analogia che consente di trattare l’intero genere umano come un solo uomo, secondo la formula di Porfirio, non si limita alla descrizione di una solidarietà estrinseca e sociologica, ma si fonda su una base metafisica che offre una spiegazione oggettiva di tale solidarietà. 

Ciò che ai nostri giorni parrebbe essere insufficiente è invece il modello con cui l’Aquinate intende risolvere il problema della propagazione del peccato originale (come colpa e come pena) dai progenitori a tutti gli altri esseri umani. E questo per due ragioni: 

  1. l’una interna allo stesso modello della generazione, in quanto, esso risulta inevitabilmente dipendente dalla biologia aristotelica che ritiene che il solo seme maschile sia il principio attivo della generazione, oggi totalmente superato dalle cognizioni delle attuali scienze biologiche; 
  2. l’altra esterna al modello della generazione, in quanto esso risulta troppo vincolato al monogenismo, e anche all’eventualità di forme di vita corporea intelligente di provenienza extraterrestre, o addirittura indotta artificialmente. 

In ogni caso i principi metafisici dell’Aquinate, che vengono impiegati anche nell’affronto del problema del peccato originale, non dipendono dal modello della generazione e possono essere utilmente impiegati anche nella prospettiva di un altro modello alternativo a quello della generazione. 

Qui abbiamo azzardato la proposta secondo cui la materia come tale, e non solamente quella presente nel corpo umano, possa essere veicolo di propagazione del peccato originale che viene contratto dall’anima umana creata direttamente da Dio, nel momento in cui essa attua la materia dando vita ad un nuovo essere umano. Secondo questa prospettiva la materia risulterebbe indebolita (conseguenza cosmologica del peccato originale) nei confronti della capacità di ricezione di ogni tipo di forma (razionale o irrazionale). La forma irrazionale verrebbe a ricevere solo gli effetti di una ricaduta cosmologia incolpevole, mentre solo l’anima razionale ne riceverebbe anche i caratteri della colpa, proprio in forza della sua razionalità. 

Tutto questo naturalmente richiederà verifiche e approfondimenti ulteriori che devono essere necessariamente rinviati a future ricerche e mantiene, in ogni caso, il carattere di ipotesi, propria di ogni “modello”.