Il rapporto tra fede e ragione nel IV capitolo dell’enciclica Fides et Ratio (1998)

L’enciclica Fides et Ratio di san Giovanni Paolo II, tra le più censurate e meno conosciute, offre nel suo quarto capitolo una lettura davvero magistrale della storia de rapporto fede/ragione nei secoli della cultura cristiana – che un cattolico non deve ignorare, se non vuole finire per ripetere i luoghi comuni del pensiero dominante – indicando un “metodo” utile anche per il nostro  “lavoro culturale”. Per un cattolico la fede è il compimento della razionalità e la ragione è il terreno naturale sul quale poggiare le basi della fede (credo ut intelligam, intelligo ut credam). Ogni contrapposizione è ingannevole: «Voi attaccaste la ragione. Questa è cattiva teologia», ripose il P. Brown di Chesterton al falso prete, il ladro Flambeau, smascherandolo.

L’enciclica indica, in quel capitolo, le tappe fondamentali della storia dell’incontro di fede e ragione.

– Nella prima parte del capitolo, si indicano i passaggi che sono stati maturati in vista della costituzione dello spazio teorico che ha reso pensabile il cristianesimo, fino all’elaborazione di una disciplina teologica sistematica.

– Nella seconda parte si individuano le tappe del processo inverso che ha visto la progressiva separazione tra fede e ragione, fino alla disgregazione della stessa razionalità filosofica.

Questa lettura di un percorso storico ha la funzione

– di documentare un metodo di elaborazione culturale (nella prima parte) e

– di indicare i punti nodali problematici che oggi vanno sbloccati (nella seconda parte)

sia per l’utilità della fede, che per il recupero di una pienezza della razionalità come tale.

*  *  *

I) Prima parte - Il cammino comune di fede e ragione

a) La liberazione della religione dal mito e la sua fondazione filosofica

Innanzitutto l’enciclica evidenzia come nel corso della storia del pensiero, prima ancora della rivelazione cristiana, sia stato necessario compiere un passo preliminare, fondamentale per costruire la stessa razionalità dimostrativa: si tratta del passaggio dal mito alla filosofia.

«Uno degli sforzi maggiori che i filosofi del pensiero classico operarono, infatti, fu quello di purificare la concezione che gli uomini avevano di Dio da forme mitologiche. Come sappiamo, anche la religione greca, non diversamente da gran parte delle religioni cosmiche, era politeista, giungendo fino a divinizzare cose e fenomeni della natura. Fu compito dei padri della filosofia far emergere il legame tra la ragione e la religione. Allargando lo sguardo verso i principi universali, essi non si accontentarono più dei miti antichi, ma vollero giungere a dare fondamento razionale alla loro credenza nella divinità. Si intraprese, così, una strada che, uscendo dalle tradizioni antiche particolari, si immetteva in uno sviluppo che corrispondeva alle esigenze della ragione universale. Il fine verso cui tale sviluppo tendeva era la consapevolezza critica di ciò in cui si credeva. La prima a trarre vantaggio da simile cammino fu la concezione della divinità. Le superstizioni vennero riconosciute come tali e la religione fu, almeno in parte, purificata mediante l’analisi razionale. Fu su questa base che i Padri della Chiesa avviarono un dialogo fecondo con i filosofi antichi, aprendo la strada all’annuncio e alla comprensione del Dio di Gesù Cristo» (n. 36).

b) La costruzione dello spazio teorico per pensare il cristianesimo

Giunti alle origini del cristianesimo la fede ha cercato di fondare la sua credibilità teoretica innanzitutto utilizzando gli strumenti della logica dimostrativa e della filosofia.

Il primo lavoro da compiere, per garantire credibilità alla fede, riguardava la necessità di dimostrare la non contraddittorietà logica del contenuto della Rivelazione, la sua non irrazionalità e, anzi, la sua piena razionalità. E questo è stato uno dei compiti fondamentali degli Apologisti a partire dal secondo secolo cristiano. Il contenuto della Rivelazione può oltrepassare – e di fatto in alcuni dei suoi contenuti oltrepassa – le capacità della ragione di raggiungerlo da sola, ma non può essere accusato di essere contro le regole della logica e quindi ridicolizzato e screditato.

Un secondo compito, più durevole nel tempo e impegnativo, ha richiesto il lungo lavoro di rielaborazione delle stesse categorie filosofiche per ampliarne la capacità di contenere, fino a poter accogliere, senza eccessive limitazioni, la ricchezza concettuale della Rivelazione che andava oltre ciò che il filosofo da solo poteva elaborare.

«Nella storia di questo sviluppo è possibile, comunque, verificare l’assunzione critica del pensiero filosofico da parte dei pensatori cristiani. Tra i primi esempi che si possono incontrare, quello di Origene è certamente significativo. Contro gli attacchi che venivano mossi dal filosofo Celso, Origene assume la filosofia platonica per argomentare e rispondergli. Riferendosi a non pochi elementi del pensiero platonico, egli inizia a elaborare una prima forma di teologia cristiana. Il nome stesso, infatti, insieme con l’idea di teologia come discorso razionale su Dio, fino a quel momento era ancora legato alla sua origine greca. Nella filosofia aristotelica, ad esempio, il nome designava la parte più nobile e il vero apogeo del discorso filosofico. Alla luce della Rivelazione cristiana, invece, ciò che in precedenza indicava una generica dottrina sulle divinità venne ad assumere un significato del tutto nuovo, in quanto definiva la riflessione che il credente compiva per esprimere la vera dottrina su Dio. Questo nuovo pensiero cristiano che si andava sviluppando si avvaleva della filosofia, ma nello stesso tempo tendeva a distinguersi nettamente da essa. La storia mostra come lo stesso pensiero platonico assunto in teologia abbia subito profonde trasformazioni, in particolare per quanto riguarda concetti quali l’immortalità dell’anima, la divinizzazione dell’uomo e l’origine del male» (n. 39).

Tutto questo lavoro ha significato la creazione dello spazio teorico per rendere pensabile il cristianesimo nel quadro storico-culturale del tempo. E quindi vivibile, a pieno titolo, nella società di allora. Basti pensare alla straordinaria opera di messa a punto di un linguaggio adatto ad esprimere i contenuti teologici e filosofici della Rivelazione, formulati prima nella lingua greca, poi ripensati e tradotti in quella latina. L’esempio più formidabile di ampliamento di significato è offerto, quasi sicuramente, da una parola come persona, che dal significato pagano originario di maschera teatrale è giunto ad indicare la persona umana, come ancora oggi la intendiamo, e le addirittura le persone divine nella Trinità.

c) I Padri della Chiesa e il confronto tra la filosofia greca e la visione contenuta nella Rivelazione

Un passo ulteriore fu quello di non limitarsi solamente a mostrare la non contraddittorietà dei contenuti della Rivelazione (primo passo), né di accontentarsi di creare uno spazio teorico per la pensabilità di quei contenuti (secondo passo), ma di mostrare addirittura la superiorità della concezione cristiana della realtà (mondo, uomo, Dio) rispetto alle filosofie, riconoscendo nel contempo quelli che erano gli elementi comuni. Il cristianesimo viene concepito, oltre che come avvenimento storico dell’Incarnazione e della Redenzione, anche come portatore della vera filosofia.

«Proprio qui si inserisce la novità operata dai Padri. Essi accolsero in pieno la ragione aperta all’assoluto e in essa innestarono la ricchezza proveniente dalla Rivelazione. L’incontro non fu solo a livello di culture, delle quali l’una succube forse del fascino dell’altra. […]

Oltrepassando il fine stesso verso cui inconsapevolmente tendeva in forza della sua natura, la ragione poté raggiungere il sommo bene e la somma verità nella persona del Verbo incarnato. Dinanzi alle filosofie, i Padri non ebbero tuttavia timore di riconoscere tanto gli elementi comuni quanto le diversità che esse presentavano rispetto alla Rivelazione. La coscienza delle convergenze non offuscava in loro il riconoscimento delle differenze» (n. 41).

Con sant’Agostino, nel quarto secolo cristiano, questa opera di elaborazione e sistematizzazione teologica, fondata sulla rielaborazione della tradizione platonica, raggiunge un vertice che sarà un punto di riferimento per i teologi successivi.

d) La Scolastica e la teologia come scienza

«Con la Scolastica, e in particolare con sant’Alberto Magno e specialmente con san Tommaso, viene addirittura compiuta la fondazione e la messa a punto di una teologia come scienza, dimostrativa e totalmente sistematica, basata sulla rielaborazione della filosofia aristotelica, ma non senza includere alcuni elementi importanti della tradizione platonica (soprattutto quelli provenienti dallo Pseudo-Dionigi e la dottrina della partecipazione).

Più radicalmente, Tommaso riconosce che la natura, oggetto proprio della filosofia, può contribuire alla comprensione della rivelazione divina. La fede, dunque, non teme la ragione, ma la ricerca e in essa confida. Come la grazia suppone la natura e la porta a compimento, così la fede suppone e perfeziona la ragione. Quest’ultima, illuminata dalla fede, viene liberata dalle fragilità e dai limiti derivanti dalla disobbedienza del peccato e trova la forza necessaria per elevarsi alla conoscenza del mistero di Dio Uno e Trino. Pur sottolineando con forza il carattere soprannaturale della fede, il Dottore Angelico non ha dimenticato il valore della sua ragionevolezza; ha saputo, anzi, scendere in profondità e precisare il senso di tale ragionevolezza. La fede, infatti, è in qualche modo esercizio del pensiero; la ragione dell’uomo non si annulla né si avvilisce dando l’assenso ai contenuti di fede; questi sono in ogni caso raggiunti con scelta libera e consapevole» (n. 43).

La chiave di volta, dal punto di vista logico-metafisico, di tutto l’impianto sistematico di Tommaso sta nella dottrina dell’analogia-partecipazione che permette alla ragione di compiere due grandi passi:

i) innanzitutto quello di riconoscere modi e gradi di perfezione differenziati nella realtà (ente), nella sua conoscibilità (vero), nel suo essere desiderabile e amabile (bene), nell’organicità del suo essere un tutto (uno);

ii) e insieme quello di elevarsi dall’esperienza dei gradi materiali e sensibili dell’essere alla conoscenza, pur limitata, ma vera, dei livelli superiori non immediatamente e adeguatamente conoscibili, ma neppure del tutto inaccessibili.

E sembrano proprio questi i nodi verso i quali le scienze più avanzate paiono oggi, pur se ancora timidamente, aspirare nella loro ricerca di fondamenti.

 

II) Seconda parte - La progressiva separazione e contrapposizione tra fede e ragione

A partire proprio dal tredicesimo secolo, dagli stessi contemporanei di san Tommaso, si comincerà a comprendere sempre meno la lezione dell’analogia dell’ente e del vero e, in nome di un maggior grado di certezza della conoscenza, ci si concentrerà sempre di più sull’univocità, più facile da comprendere, più agevole da controllare. Questo modo di procedere apparirà addirittura, ad alcuni, come un servizio alla verità, anziché una limitazione, un miglioramento della scienza anziché un suo impoverimento qualitativo.

a) Univocità e nominalismo: il ruolo esclusivo della matematica

Ma si tratterà di un potenziamento unilaterale di qualche aspetto della razionalità, soprattutto di quella matematica, a scapito degli altri.

La ricaduta sulla teologia, della perdita dell’analogia, si farà sentire prima nell’univocità del pensiero protestante, poi nell’esasperazione quasi sofistica di certa tarda Scolastica e infine nella riduzione della stessa teologia a pura narrazione.

«Con il sorgere delle prime università, la teologia veniva a confrontarsi più direttamente con altre forme della ricerca e del sapere scientifico. Sant’Alberto Magno e san Tommaso, pur mantenendo un legame organico tra la teologia e la filosofia, furono i primi a riconoscere la necessaria autonomia di cui la filosofia e le scienze avevano bisogno, per applicarsi efficacemente ai rispettivi campi di ricerca. A partire dal tardo Medio Evo, tuttavia, la legittima distinzione tra i due saperi si trasformò progressivamente in una nefasta separazione. A seguito di un eccessivo spirito razionalista, presente in alcuni pensatori, si radicalizzarono le posizioni, giungendo di fatto a una filosofia separata e assolutamente autonoma nei confronti dei contenuti della fede. Tra le altre conseguenze di tale separazione vi fu anche quella di una diffidenza sempre più forte nei confronti della stessa ragione. Alcuni iniziarono a professare una sfiducia generale, scettica e agnostica, o per riservare più spazio alla fede o per screditarne ogni possibile riferimento razionale.

Insomma, ciò che il pensiero patristico e medievale aveva concepito e attuato come unità profonda, generatrice di una conoscenza capace di arrivare alle forme più alte della speculazione, venne di fatto distrutto dai sistemi che sposarono la causa di una conoscenza razionale separata dalla fede e alternativa ad essa» (n. 45).

Gradualmente quegli aspetti della razionalità, che prima era concepita analogicamente, verranno a contrapporsi anziché integrarsi: ciò che prima era riconosciuto come, in certa misura, reale (l’universale) sarà considerato un puro nome (nominalismo). Il sapere passerà, un po’ alla volta, da una struttura organica e analogica ad una struttura univoca e dialettica: contrapposizione in luogo della integrazione dei diversi gradi di perfezione.

b) Il pensiero moderno e contemporaneo

L’enciclica continua, poi, la sua lettura della storia del pensiero occidentale riferendosi, allo sviluppo del pensiero filosofico e scientifico moderno e contemporaneo fino ai nostri giorni.

«Le radicalizzazioni più influenti sono note e ben visibili, soprattutto nella storia dell’Occidente. Non è esagerato affermare che buona parte del pensiero filosofico moderno si è sviluppato allontanandosi progressivamente dalla Rivelazione cristiana, fino a raggiungere contrapposizioni esplicite. Nel secolo scorso, questo movimento ha toccato il suo apogeo. Alcuni rappresentanti dell’idealismo hanno cercato in diversi modi di trasformare la fede e i suoi contenuti, perfino il mistero della morte e risurrezione di Gesù Cristo, in strutture dialettiche razionalmente concepibili. A questo pensiero si sono opposte diverse forme di umanesimo ateo, elaborate filosoficamente, che hanno prospettato la fede come dannosa e alienante per lo sviluppo della piena razionalità. Non hanno avuto timore di presentarsi come nuove religioni formando la base di progetti che, sul piano politico e sociale, sono sfociati in sistemi totalitari traumatici per l’umanità.

Nell’ambito della ricerca scientifica si è venuta imponendo una mentalità positivista che non soltanto si è allontanata da ogni riferimento alla visione cristiana del mondo, ma ha anche, e soprattutto, lasciato cadere ogni richiamo alla visione metafisica e morale. La conseguenza di ciò è che certi scienziati, privi di ogni riferimento etico, rischiano di non avere più al centro del loro interesse la persona e la globalità della sua vita. Di più: alcuni di essi, consapevoli delle potenzialità insite nel progresso tecnologico, sembrano cedere, oltre che alla logica del mercato, alla tentazione di un potere demiurgico sulla natura e sullo stesso essere umano» (n. 46)

A questo punto, ormai, il processo ha invertito del tutto il suo senso di marcia. Si cerca:

i) da un lato di estrapolare alcune categorie teologiche cristiane svincolandole dalla Rivelazione (considerata come un supporto mitologico surrettizio) e trapiantandole in sistemi filosofici sostanzialmente non più cristiani;

ii) dall’altro di rimuovere anche i fondamenti puramente filosofici che sono serviti all’elaborazione di una teologia come scienza.

Ma una simile operazione non poteva non finire per demolire anche gli elementi indispensabili alla ragione filosofica come tale. Così quest’ultima si è gradualmente trovata senza un fondamento su cui basarsi per poter procedere.

«Come conseguenza della crisi del razionalismo ha preso corpo, infine, il nichilismo. Quale filosofia del nulla, esso riesce ad esercitare un suo fascino sui nostri contemporanei. I suoi seguaci teorizzano la ricerca come fine a se stessa, senza speranza né possibilità alcuna di raggiungere la meta della verità. Nell’interpretazione nichilista, l’esistenza è solo un’opportunità per sensazioni ed esperienze in cui l’effimero ha il primato. Il nichilismo è all’origine di quella diffusa mentalità secondo cui non si deve assumere più nessun impegno definitivo, perché tutto è fugace e provvisorio» (n. 46).

E ancora:

«Non è da dimenticare, d’altra parte, che nella cultura moderna è venuto a cambiare il ruolo stesso della filosofia. Da saggezza e sapere universale, essa si è ridotta progressivamente a una delle tante province del sapere umano; per alcuni aspetti, anzi, è stata limitata a un ruolo del tutto marginale. Altre forme di razionalità si sono nel frattempo affermate con sempre maggior rilievo, ponendo in evidenza la marginalità del sapere filosofico. Invece che verso la contemplazione della verità e la ricerca del fine ultimo e del senso della vita, queste forme di razionalità sono orientate – o almeno orientabili – come ragione strumentale al servizio di fini utilitaristici, di fruizione o di potere» (n. 47).

Ai nostri giorni sembra essere ormai completa la parabola discendente, descritta nella seconda parte e si apre, come si è rilevato in precedenza, il problema di una rimessa a punto delle basi della razionalità, resasi urgente sia dal punto di vista esterno (problema delle conseguenze sulla vivibilità della società) che da quello interno (problema dei fondamenti della razionalità). È questo il quadro in cui oggi si viene a collocare il “problema dei fondamenti”: ciò che, a prima vista potrebbe apparire solo una questione per gli specialisti della filosofia delle scienze, si rivela essere, in realtà quello ben più profondo dei fondamenti metafisici della stessa razionalità della realtà e della conoscenza, e la condizione stessa della vivibilità della esistenza personale e sociale dell’essere umano.