Libere riflessioni sulla revisione del metodo nella teologia e nelle scienze a partire da uno scritto del Card. Giacomo Biffi

Libere riflessioni sulla revisione del metodo nella teologia e nelle scienze

a partire da uno scritto del Card. Giacomo Biffi

 

di Alberto Strumia*

 

 

 

  

Premessa

L’itinerario culturale che mi sono trovato a percorrere, dapprima per la mia formazione e attività accademica in ambito strettamente scientifico,[1] poi per gli studi filosofico-teologici, seguiti da qualche esperienza di insegnamento in ambito epistemolgico e interdisciplinare,[2] mi suggeriscono, con una certa spontaneità, dei confronti tra i fondamenti, metodi e i risultati conoscitivi delle diverse discipline con le quali mi trovo a venire a contatto. E direi che ciò avviene con tanto maggiore interesse e “gusto”,[3] quanto più tali discipline sono comunemente considerate tra loro distanti e quindi vengono raramente messe in comunicazione, in una prospettiva genuinamente interdisciplinare,  nei curricula formativi sia ecclesiastici che civili.[4]

Questo interesse corrisponde, tra l’altro, ad una necessità della nostra cultura contemporanea, che, essendo molto specialistica e frammentata, si trova nella condizione di non possedere, da un lato “più” e dall’altro “non ancora”, una metodologia e una scienza regolativa che viene presupposta, come fondamento, da tutte le altre scienze e garantisce le condizioni per una corretta comunicazione tra loro e un confronto tra i loro risultati. La “messa a punto” di una tale “teoria dei fondamenti”, come oggi si ama chiamarla negli ambienti scientifici (soprattutto  in quelli che si occupano di logica e di matematica), pare essere una delle vie maestre per porre, in modo sistematico e con il rigore scientifico che attualmente si richiede, quelle domande di carattere ontologico alle quali anticamente rispondeva la metafisica insieme alla filosofia della natura.

Una ricerca, orientata in tal senso, è stata, tra l’altro, suggerita dallo stesso magistero pontificio[5] ed oltre ad essere ormai sentita come un’esigenza del mondo scientifico più maturo[6] — e non solo dal punto di vista teorico, ma anche in vista delle sue possibili ricadute tecnologiche[7] — rappresenterà, prima o poi, una necessità anche per il mondo filosofico-teologico.

In ambito teologico si sente l’esigenza di una certa ripresa di sistematicità dimostrativa,  venuta gradualmente a ad indebolirsi negli ultimi decenni in conseguenza del parallelo indebolimento dei fondamenti del metodo dimostrativo in filosofia. Una volta che ha dissolto la “dignità scientifica” della nozione di verità,[8] con il mancato riconoscimento del realismo nella conoscenza, la filosofia non è stata più in grado di offrire alla teologia la dimostrazione della “verità” della premessa di ragione propria del sillogismo teologico e, quindi, di garantire una vera e propria “sistematicità” alla teologia.

Mi sembra, allora, che si siano venute gradualmente ad aprire per la teologia,  queste tre vie.[9]

      L’una è quella che l’ha condotta a divenire sempre più “narrativa”, potendo contare, di fatto, unicamente sulla verità, riconosciuta in forza della fede, della premessa rivelata del sillogismo teologico e non più anche sulla verità dimostrata della premessa filosofica, il cui valore è rimasto al più rango di ipotesi o di opzione. In queste condizioni la concatenazione logica delle dimostrazioni non può portare a delle conclusioni stringenti, ma al massimo a conclusioni ipotetiche, o a delle descrizioni più o meno appaganti dal punto di vista della loro armonizzazione d’insieme, non prive di valore estetico e, talvolta, magari anche di inflessioni edificanti.[10]

      Un’altra è stata quella di cercare di produrre in actu exercito, da parte della teologia stessa, la filosofia che le è necessaria per procedere dimostrativamente. Impresa non facile, per non dire quasi impossibile, che richiede grande genialità e corre il rischio di un alto grado di incomunicabilità con gli altri universi disciplinari, in quanto sembra essere costruita troppo ad hoc, ad uso della sola teologia; via che lo stesso san Tommaso d’Aquino non si avventurò a percorrere, se non parzialmente e quando gli era strettamente indispensabile per correggere, completare, riformulare il preesistente impianto aristotelico.[11] Questa seconda via è certamente interessante e parte, spesso, dalla constatazione-convinzione che la Scrittura stessa contiene una propria metafisica e una propria antropologia  che vanno esplicitate e sistematizzate in una forma “filosofica”, cioè in una forma che una sana ragione, pur con fatica e non senza errori, potrebbe cogliere anche senza una rivelazione. La Scrittura può svolgere, in questo senso, una funzione di guida che anticipa al filosofo alcuni risultati che egli dovrà dimostrare con la sola ragione, ma non offre necessariamente quegli strumenti razionali che in qualche modo presuppone per poter essere essa stessa accolta e compresa.[12] Quindi ben difficilmente questo modo di procedere potrà portare a dei risultati senza una sintesi filosofica di riferimento previa.

      La terza strada, infine, è quella di mantenere, in via provvisoria, gli impianti filosofici antichi (in sostanza quello agostiniano o quello tomistico, pure con le dovute sfaccettature e varianti, dovute al contributo dei commentatori, dei pensatori successivi, ecc.), facendone vedere la bontà attraverso i nuovi frutti che sono ancora in grado di offrire, e rivedendo quando è necessario la metodologia con la quale certi risultati sono stati dedotti, là dove essa mostrasse i limiti di una prospettiva riduttiva e particolaristica. Questo modo di procedere, rinvia ad altri il compito della messa a punto di una teoria dei fondamenti, di un recupero scientifico della nozione di verità e del realismo nella conoscenza; dati, questi ultimi, che vengono presupposti come postulati, in quanto ritenuti irrinunciabili per una elaborazione teologica sistematica. E i frutti possono essere importanti per un progresso teologico assolutamente autentico. In fondo il teologo può anche, in certo qual modo e in via provvisoria,[13] accettare “per una fede nella ragione”, che a lui, in particolare, deriva dalla “fede teologale nella Rivelazione”,  quei fondamenti razionali che a scienziati e filosofi compete di legittimare.[14] Un po’ come fa il fisico che si serve del lavoro dei matematici assumendolo come valido,[15] senza obbligatoriamente, ripercorrerne tutto il cammino fondativo e dimostrativo.[16]

La terza via è in fondo quella del teologo “tradizionale”, nel senso più nobile della parola, che sa elaborare risultati propri; una via che il Card. Giacomo Biffi sembra percorrere con la più appassionata fedeltà, che gli consente addirittura di proporre soluzioni nuove assai originali a problemi teologici decisivi finora irrisolti, e non senza la soddisfazione e il giusto compiacimento  di chi sa di avere trovato qualcosa di profondamente intelligente e risolutivo, meritevole di essere comunicato anche ad altri, e di averlo saputo dimostrare.

Vorrei, allora, cercare di mostrare, in questo breve articolo, l’analogia che ho riscontrato tra il modo di rivedere il metodo della teologia, schematicamente proposto e poi sapientemente applicato dal Card. Biffi per «disincagliarla» da un paradosso insoluto, e il percorso apertosi nelle scienze odierne in ordine alla revisione del metodo scientifico, dimostratasi necessaria per il proseguimento stesso della ricerca scientifica, in parte bloccatasi su alcune questioni non risolte con conseguenze paradossali.

L’idea di questo possibile accostamento mi è nata ascoltando le lezioni del ciclo della Scuola di anagogia tenute dal Cardinale presso l’Istituto “Veritatis Splendor”nel 2003. Sono rimasto particolarmente colpito dal fatto che una tale somiglianza di modo di procedere si stesse verificando in due ambiti di conoscenza oggi non solo considerati lontani, ma di fatto non comunicanti,[17] a partire da problematiche così diverse. Ma, in realtà, almeno un punto in comune c’è e consiste nel rilevare come su certi problemi si sia giunti, in entrambi i casi, a conclusioni paradossali e contraddittorie. In queste situazioni, se non si è disposti a rinunciare alla ricerca,[18] occorre ammettere che si è sbagliato qualcosa nel modo di impostarla, e si deve rivedere tale modo. Ma quello che è più sorprendente è il constatare che i punti di revisione del metodo sono sostanzialmente gli stessi, per la teologia come per le scienze, anche se i linguaggi con i quali ci si esprime nei due ambiti sono diversi. Questo pare una sorta di conferma “fattuale” che la struttura della ragione e della scienza è, nei suoi fondamenti, la stessa per tutti gli ambiti disciplinari e che, quindi, deve esserci un’unica teoria dei fondamenti capace di sostanziare l’intero sapere, comunque esso venga poi ad articolarsi e sfaccettarsi in numerose discipline e conoscenze. Ed è questo fondamento comune a rendere possibile il confronto tra i loro risultati, nel rispetto dei diversi statuti epistemologici e nella complementarità degli oggetti formali delle diverse scienze.

 

Una proposta di revisione del metodo

Partendo dal saggio del Cardinale“Liberti in Cristo”(S. Ambrogio). Saggio di antropologia cristocentrica,[19] vorrei soffermarmi, senza entrare direttamente nella problematica antropologico-cristologica che costituisce l’oggetto proprio della trattazione, a considerare la riflessione che l’autore svolge nel primo capitolo della parte terza, sulla necessità di una «riconsiderazione metodologica»,[20] cioè di una vera e propria revisione del metodoteologico, seguendo il quale è stato affrontato il problema in oggetto nel saggio, e che ha condotto ad una battuta di arresto causata dalla comparsa di una vera e propria «antinomia».[21] Sarà questa revisione dei fondamenti metodologici della teologia a consentire all’autore di «disincagliare»[22] la ricerca teologica rimuovendo la contraddizione altrimenti inevitabile.

 

L’atteggiamento di fronte al problema: rinuncia e censura

L’autore inizia il capitolo constatando come, di fronte all’apparire di un problema che si presenta come insolubile, in quanto conduce a una contraddizione, l’atteggiamento che si è venuto a consolidare con il tempo è stato quello della rinuncia.

«È venuta a mancare la fiducia in qualche possibile approdo, dopo che si sono esplorate inutilmente tante strade; forse c’è anche il desiderio di non perdere tempo in un’impresa che si prevede senza esito».[23]

 Poi di fatto, questo atteggiamento è divenuto una vera e propria censura del problema («allergia»), più o meno ideologicamente motivata:

«certamente c’è l’allergia per ciò che è astratto e pare non abbia rispondenze esistenziali».[24]

Come a dire che se, per il resto, una disciplina funziona correttamente si può rinviare l’affronto di una questione che evidenzia un paradosso e una contraddizione e continuare a lavorare come se il problema non ci fosse.[25] Il riverbero di questa censura non si limita a rimanere circoscritto al settore della ricerca, ma si fa sentire, di conseguenza anche a livello della didattica, per cui di certi problemi ancora aperti viene a conoscenza solo che riesce a “scovarli” per conto proprio, rimettendo mano a libri e studi del passato.

«Ma è giusto che si lasci sussistere entro la dottrina cattolica un’antinomia come questa, che ha tutta l’aria di essere, più che un mistero da accogliere nella fede, una pura e semplice irragionevolezza? Tanto più che la questione non si colloca ai margini nel complesso della dottrina rivelata: si annida anzi nel cuore stesso del cristianesimo, dal momento che concerne la natura della salvezza dell’uomo e il riscatto dalla tirannia del male.

È sì un problema “astratto”; ma non è privo di riverberi sulla nostra vita concreta di creature redente, costituite in una perenne tensione morale».[26]

Un simile atteggiamento di “resistenza al cambiamento” di paradigma è stato riscontrato più volte anche nel corso della storia del pensiero scientifico, ed è motivabile sia per ragioni di ordine psicologico (abitudine ad un metodo di ragionamento ormai acquisito come forma mentis), che per ragioni di ordine pratico (un certo pragmatismo che suggerisce di non interrogarsi troppo sui presupposti teorici di qualcosa che, comunque, alla prova dei fatti funziona bene, anche se non si comprende del tutto il perché).

Come ha osservato Thomas Kuhn nel saggio che più lo ha reso famoso:

«Fintanto che gli strumenti forniti dal paradigma[27] continuano a dimostrarsi capaci di risolvere i problemi che questo definisce, la scienza si muove molto velocemente e penetra assai profondamente usando con fiducia quegli strumenti. Come nel processo di fabbricazione così anche nella scienza il cambiamento di strumenti è una stravaganza che va riservata per l’occasione che lo richiede. Il significato della crisi sta nell’indicazione, da esse fornita, che l’occasione per cambiare strumenti è arrivata».[28]

 

La messa in questione del metodo e l’individuazione dell’origine della contraddizione

È rigoroso metodo scientifico, quando ci si imbatte in una contraddizione logica, procedere ad una serie di controlli, seguendo un ordine crescente di radicalità della diagnosi e, quindi, della terapia da adottare per sanare la teoria:

      in primo luogo si procede a controllare che non siano stati compiuti banali errori formali nella catena delle deduzioni;

      superato questo primo ovvio esame si controlla che non vi siano delle contraddizioni già nelle premesse che siano sfuggiti in prima istanza; questa è un’analisi a volte più difficile. In caso ve ne siano si cerca di correggere le premesse rimuovendo i conflitti interni ad esse o tra di esse;

      se, superato anche questo stadio, la contraddizione finale rimane insoluta, allora è il caso di procedere ad una revisione del metodo procedurale dell’intera disciplina. Questo è l’atteggiamento più difficile da istituire, soprattutto per ragioni di abitudine mentale ad un metodo ormai consolidato, sia perché richiede anche una certa genialità inventiva e, magari, anche una conoscenza del metodo di altri ambiti disciplinari, che può offrire un utile suggerimento.

Come osserva il Cardinale, a quest’ultimo livello ci si dispone dopo aver superato e ripetutamente verificato l’esito dei test precedenti, cioè quando

«ogni attività speculativa nel merito è diventata infeconda e praticamente senza speranza. In questi casi è naturale il sospetto che il problema sia stato dal principio mal impostato  e risulti viziato alla radice da un errore metodologico».[29]

L’errore principale dal quale originano tutte le conseguenze è individuato nell’eccessiva scomposizione e conseguente separazione dei singoli elementi in questione nel problema, che vengono trattati come a se stanti, quasi potessero sussistere come “parti” isolate e autonome rispetto al “tutto”, perdendo di vista l’unità di quest’ultimo.

«L’errore metodologico non è difficile da individuare: sta nell’analisi e nell’affronto di due stati isolati, senza alcun inquadramento dentro il disegno di Dio. Questo è il punto di capitale rilievo del nostro discorso: ciò che è divelto dall’unitotalità della divina “economia” non è più reale; e anzi si altera nella sua stessa essenza perché il vincolo che lega ogni essere, ogni atto, ogni concetto al progetto eterno appartiene esso stesso alla ricchezza propria di quell’essere, di quell’atto, di quel concetto.

Nessun tema teologico può essere affrontato senza un esplicito riferimento a quel propositum (próJhesiVdel Padre, che è l’unico argomento vero, diretto, esauriente di ogni nostra non oziosa contemplazione. Se lo sifa, si rischia di cadere nell’errore o addirittura nell’assurdità».[30]

Si potrebbe, a questo punto, anche legittimamente pensare che la questione posta qui in campo riguardi direttamente solo la teologia, in quanto disciplina che, pur considerata tomisticamente come scientia media, ha comunque uno statuto epistemologico, in qualche modo unico, dato il suo debito di contenuto alla Rivelazione. Ma a questo proposito l’autore ci fa capire esplicitamente che i principi epistemologici che sta introducendo non sono specifici della teologia, ma sono indispensabili e comuni ad ogni scienza, anzi, connotano ogni forma di conoscenza umana.

«Anche se può sembrare un avvio un po’ alla lontana, può essere utile all’approfondimento del discorso partire dal rilievo di qualche caratteristica della conoscenza umana in quanto tale».[31]

E che questi principi stiano alla base della conoscenza umana e quindi anche di ogni scienza, è così vero che possiamo riscontrarlo anche nell’ambito delle problematiche più recenti delle nostre scienze fisiche[32] ematematiche.

In fondo essi sono riconducibili addirittura al “senso comune”, all’esperienza comune, ad un uso non manipolato della ragione naturale in quanto tale. Ma, allora, non potranno sembrare un po’ banali e scontati al filosofo, allo scienziato e perfino al teologo stesso? Il punto è che se, talvolta — quando si fa ricorso per presentarli al senso comune, al linguaggio comune, all’esperienza comune — essi sembrano banali o, come si dice nel linguaggio della filosofia moderna, “ingenui”, essi non lo sono affatto nel loro contenuto metodologico. Il problema delle scienze, allora, in qualunque settore esse operino, sarà quello di darne una formulazione “non ingenua”, cioè adeguata al proprio linguaggio, al proprio sistema formale, sarà quello i fondarli scientificamente. Questo è il compito di una teoria dei fondamenti, che persegue, oggi, il compito antico della metafisica.

Giustamente, perciò, nel testo che stiamo esaminando questi principi vengono richiamati in un breve excursus epistemologico, al quale l’autore dedica un paragrafo sintetico ma estremamente importante, che potrebbe perfino passare inosservato al lettore concentrato sul tema principale della trattazione teologica.

 

La ricerca di una corretta metodologia e l’individuazione dei principi che la regolano

Ma passiamo all’esame di ciascuno di questi principi ai quali il testo in esame fa riferimento.

 

Primo principio: «conoscere è unificare»

L’autore rileva come la conoscenza umana, è per sua natura, unificante. Infatti conoscere — e in particolare conoscere scientificamente, cioè spiegare in termini di causa-effetto — significa ricondurre una molteplicità di dati ad un numero molto minore di principi esplicativi, riconducibili ad un unico principio ontologico causale.[33]

«L’interno impulso di ogni autentica intelligenza tende a superare la molteplicità per arrivare all’uno. Ciò che è conosciuto frammentariamente non è adeguatamente conosciuto.

Il nostro spirito è sempre a disagio quando si vede quasi smarrito entro una congerie di creature, di fatti, di esperienze, di idee; e perciò nell’attività che gli è propria si sforza di mettere ordine, di collegare, e in definitiva di risalire verso ciò che è singolare, semplice, onnicomprensivo. Senza però mai raggiungere il traguardo cercato, perché la realtà unica e la radice unificante di tutta la varietà delle cose non è alla sua portata; ma questa aspirazione in lui non si spegne, e anzi alimenta instancabilmente la dinamica intrinseca del suo indagare».[34]

 

Le scienze, in ogni epoca procedono allo stesso modo. Se c’è un elemento certamente comune tra la scienza dell’antichità e quella moderna e contemporanea è certamente questa ricerca dell’unificazione.

Sono ben note le grandi sintesi scientifiche che hanno operato in tal senso fin dalla nascita della “fisica moderna”:

      la prima sintesi galileiano-newtoniana ha unificato la meccanica dei corpi terrestri e celesti, riconducendola ai pochi principi della dinamica che oggi chiamiamo “classica”;

      la seconda grande sintesi è stata quella maxwelliana che ha unificato la comprensione dei fenomeni elettrici, di quelli magnetici e ottici;

      poi l’unificazione della teoria del calore (termodinamica) con la meccanica newtoniana, da parte della teoria cinetica e della meccanica statistica;

      l’unificazione della meccanica con la teoria della gravitazione avvenuta con la sintesi einsteiniana;

      l’unificazione ancora in corso delle teorie dei campi, frutto della meccanica quantistica e della relatività, prima con l’elettromagnetismo e per ora, non ancora compiuta, con la gravitazione.

A quest’ultimo gradino, nel XX secolo, si sono cominciati a riscontrare diversi paradossi, soprattutto nell’interpretazione della meccanica quantistica, ma anche nell’ambito della meccanica classica, della chimica e della biologia. Questi hanno favorito un certo “incagliarsi” al livello del riconoscimento del “valore conoscitivo” della scienza che ha continuato a lavorare, un po’ più pragmaticamente, per la fiducia accordata ai suoi risultati, che per il suo chiaro “valore conoscitivo”.[35]

Ad un certo punto, però, si è incominciato a parlare di “crisi” e la revisione del metodo scientifico, almeno in alcuni dei suoi aspetti, fino a quel momento non profondamente analizzati, ha incominciato ad essere necessaria ai fini della prosecuzione dell’intera opera scientifica. Certamente questa revisione non viene attuata da tutti indistintamente. Molti settori della ricerca sembrano proseguire indisturbati in quanto, al livello dei loro problemi, il metodo usuale è ancora in grado di dare buoni risultati.

Un secondo esempio di ambito scientifico nel quale si è cercata l’unificazione è quello della matematica. Ed è interessante osservare come questa disciplina abbia sempre cercato un certo contenuto metafisico.

      la prima unificazione di aritmetica e geometria, com’è noto, risale ai pitagorici;

      con Cartesio si avrà molto più tardi una unificazione di geometria e algebra con la geometria analitica;

      Cantor, con la teoria degli insiemi, farà un primo passo di unificazione tra la matematica  ed alcuni aspetti dell’ontologia;

      con il programma di Hilbert si cercherà l’unificazione di matematica e logica (in senso estensionale).

E proprio in queste ricerche emergeranno paradossi[36] inaspettati che stanno chiedendo, anche qui, una certa revisione del metodo.

 

Corollario: «ogni elemento va esaminato in rapporto al tutto»

Da questo principio emerge come un corollario che ne precisa i termini di comprensione. Ed è un corollario così importante che costituisce, a mio parere, un principio esso stesso. Esso precisa il modo secondo il quale si deve cercare l’unificazione: non tanto come “somma” di conoscenze parziali di frammenti di conoscenza isolati, ma come tentativo di cogliere il “tutto” come un “tutto” e le “parti” come inseparabili dal “tutto”. Certamente questoapproccio globale è impossibile in senso stretto alla mente umana, a causa dei suoi limiti, ma va tenuto sempre presente almeno in prospettiva.

Da quanto è già stato citato:

«L’errore metodologico non è difficile da individuare: sta nell’analisi e nell’affronto di due stati isolati, senza alcun inquadramento dentro il disegno di Dio. […] ciò che è divelto dall’unitotalità della divina “economia” non è più reale».

Emerge qui, nel testo, il corollario-principio, che può essere ritradotto in un principio generale, valido non solo per la teologia. Possiamo formularlo così: ogni elemento va esaminato in rapporto al tutto.

Potremmo parafrasare il testo del Cardinale, per quanto riguarda le scienze di oggi, in questo modo:

L’errore metodologico sta nell’analisi e nell’affronto di due stati isolati, esaminandoli come se fossero a se stanti, separati, e non come parte di un tutto unitario complesso». Ovvero:

      non è sempre possibile scomporre il tutto nelle sue parti;

      analizzare le parti come se fossero isolate dal tutto;

      cercare di ricostruire una comprensione del tutto come “somma delle parti”.

Se si segue il metodo di isolare la parte dal tutto, che l’epistemologia chiama “riduzionistico”, spingendolo fino all’estremo, si giunge a dei paradossi, sia dal punto di vista logico che osservativo. La scienza ha sempre adottatoquesto approccio riduzionistico e, per certi aspetti non può farne a meno, perché la mente procede discorsivamente, astraendo da troppi particolari che non può dominare. Tuttavia questo modo di procedere non può essere assolutizzato e non può andare oltre un certo grado di comprensione, per cui deve essere sempre tenuto sotto il controllo della consapevolezza dei suoi limiti.

Oggi si parla molto della “crisi del riduzionismo” che ha investito un po’ tutti gli ambiti scientifici. Per uscirne, si sta cercando una metodologia che tenta di cogliere ed esaminare le proprietà del tutto nel suo complesso (proprietà che vengono chiamate “globali”): in questo senso si usa oggi spesso il termine “complessità”. Questa rappresenta, certamente, la prospettiva di revisione metodologica delle scienze più rilevante, emersa con chiarezza nella seconda metà del XX secolo.

 

Secondo principio: cercare ciò che permane «oltre la provvisorietà»

Un altro principio che il nostro testo mette in evidenza sinteticamente riguarda la ricerca di ciò che permane nelle cose al di là del loro divenire e anche durante il loro divenire e che costituisce, almeno come un riverbero dell’eterno.

«In terzo luogo, conoscere è ricercare l’eterno. Immerso com’è in un mondo che passa, lo spirito — che considerato in se stesso non ha la volubilità della materia, ed è naturale che desideri entrare in rapporto con ciò che gli è omogeneo — vuol trovare in ogni cosa effimera che incontra ciò che la aggancia al mondo di ciò che è immutabile e definitivo».[37]

È chiaro che se andiamo a ricercare ciò che nelle scienze odierne, come ad esempio in quelle fisiche, “permane” durante e oltre il cambiamento dello stato di un sistema, andiamo alla ricerca di proprietà di livello molto “basso” se confrontate con i caratteri permanenti propri dello spirito. Tuttavia, pur nella differenza del piano materiale e di quello spirituale nei quali si collocano i diversi oggetti delle scienze e della teologia, rimane il fatto che la conoscenza cerca, comunque, di individuare i caratteri permanenti delle cose. In ambito scientifico queste “informazioni” che non mutano durante i “processi” sono ricercate e trovate a livello:

      degli “invarianti”, cioè di quelle grandezze che rimangono inalterate durante un processo o una cera “operazione” di cambiamento. A queste grandezze, proprio per la loro indipendenza, dalle condizioni osservative,viene riconosciuto dallo scienziato un valore di “oggettività”;

      delle “leggi” che governano il processo, che spesso vengono formulate come “leggi di conservazione” di qualcosa. Lo scienziato ritiene di avere individuato una legge quando può formularla e controllarla nella maniera più oggettiva possibile;

      delle “strutture” che si ritrovano identiche o molto simili nei più diversi ambiti d’indagine.

 

Terzo principio: cercare il fondamento «oltre il limite»

Il principio ulteriore della conoscenza che tende ad andare oltre i limiti che la definiscono.

«Ma c’è una terza proprietà del conoscere, ed è il suo non rassegnarsi al limite. E la sua perenne propensione ad oltrepassarsi».[38]

Il principio di andare “oltre il limite”, per le scienze di oggi si chiama “ricerca dei fondamenti” e mostra che un “sistema” non può essere chiuso, ma deve essere aperto ad un fondamento ad esso ulteriore, pena la propria inconsistenza. Il fondamento non può essere un elemento interno e omogeneo al sistema stesso, ma è qualcosa che, in certa misura, è caratterizzato da una diversa “natura”. Questo è, ormai, oggetto di indagine a livello di dimostrazione, se non altro perché se lo si nega, si incappa in paradossi e contraddizioni per l’intero sistema.[39]

Certo, da qui ad «attingere nell’amore» quel fondamento che è Dio, c’è molta strada. Tuttavia la problematica emergente dalle scienze è più che sufficiente a dimostrare che la realtà che conosciamo, e il modo in cui la consociamo, non si spiegano da se stessi, ma ricevono la loro consistenza da un fondamento irriducibile ad essi.

 

Osservazioni conclusive

A conclusione vale la pena rilevare almeno due cose.

La prima, a partire dal testo che abbiamo sommariamente esaminato e commentato, è che se i testi dell’excursus del Card. Biffi sulla conoscenza, che sono stati citati, possono sembrare, a prima vista, caratterizzati più da un accento antropologico, psicologico ed esistenziale che scientifico, essi rivelano, invece, con chiarezza una questione strettamente epistemologica e metodologica che nasce dall’interno della ricerca, teologica. E tale questione, che riguarda la revisione del metodo, è nella sua sostanza assai simile, per non dire identica, a quella che è sorta come esigenza interna della ricerca delle altre scienze nel corso del XX secolo ed è tuttora assolutamente aperta. È come una conferma che ciò che viene percepito a livello di esperienza comune possiede, almeno in questo caso, un valore oggettivo così inseparabile dalla natura dell’esperienza e della ragione umana, da resistere all’analisi più rigorosa, alle formulazioni più tecniche delle più diverse scienze, che anzi, aiutano a chiarirne i termini e mostrarne l’assoluta fondatezza.

La seconda si muove, piuttosto, nella prospettiva dell’unità del sapere e riguarda la possibilità che ai nostri giorni sembra riemergere, di un incontro tra le differenti discipline che sia, finalmente, non estrinseco, come una sorta di accordo “politico” che le vede impegnate in una sorta di “contratto epistemologico” che stabilisce confini più o meno rigidi entro i quali ciascuna si può muovere senza entrare in conflitto con le altre. Al contrario, l’unità è data in partenza, al fondamento, che tutte le accomuna in quanto è alla base di ogni forma di conoscenza umana, della natura stessa delle facoltà umane e della realtà delle cose. Un fondamento che sta emergendo, un po’ alla volta come un dato logico e ontologico oggettivo, scientifico, che si impone da se stesso e che neppure il soggettivismo e il relativismo del pensiero moderno e contemporaneo hanno potuto cancellare. È su questo terreno sul quale ogni disciplina sistematica, qualunque sia il suo oggetto, scopre un po’ alla volta di poggiare i piedi che l’interdisciplinarietà e l’unità del sapere potranno fondarsi. Ora il lavoro da fare è quello di far emergere questo fondamento, dimostrandone l’irrinunciabilità, e formulandone i termini nella maniera più precisa possibile con gli strumenti teoretici dei quali oggi disponiamo. In questo modo faremo un servizio sia alla scienza che alla teologia.

 

* Scuola di anagogia. Direttore dell’Istituto “Veritatis Splendor” di Bologna e ordinario di Fisica matematica all’Università di Bari.

[1] Prima presso la Facoltà di Ingegneira dell’Università di Bologna e ora presso la Facoltà di Scienze matematiche, fisiche e naturali dell’Università di Bari.

[2] Presso lo Studio filosofico domenicano di Bologna e la Facoltà di lettere e filosofia dell’Università L.U.M.S.A. di Roma.

[3] Devo citare, a proposito di “gusto” e soddisfazione due esperienze di lavoro in questa direzione di ricerca e contemporanea messa a punto di strumenti di lavoro e per la didattica, nelle quali mi trovo coinvolto: la prima è quella che ha portato alla pubblicazione del Dizionario interdisciplinare di scienza e fede (ed. Città Nuova e Urbaniana University Press, Roma 2002), in collaborazione con G. Tanzella-Nitti che ne ha ideato il progetto; esperienza che ora prosegue con il portale internet di Documentazione interdisciplinare di scienza e fede (www.disf.org); l’altra è quella del gruppo di ricerca sui Fondamenti logici e ontologici delle scienze, che è iniziata alcuni anni fa nell’ambito dell’Istituto filosofico di studi tomistici di Modena e ora prosegue, in collaborazione con lo stesso, presso l’Istituto “VeritatisSplendor” di Bologna (www.veritatis-splendor.it). Un primo frutto di questo secondo lavoro è stato il volume Analogia e autoreferenza (a cura di G. Basti e C.A. Testi, ed. Marietti 1820, Genova-Milano 2004).

[4] Normalmente un tale confronto è presente a livello di divulgazione dei risultati delle scienze e viene condotto secondo una modalità quasi sempre superficiale, con un metodo scorretto, ideologicamente viziato dal concordismo (più o meno esplicitamente pro o contro la visione cristiana) o, al contrario, sotto la “protezione” di un parallelismo tra differenti piani della conoscenza che non conosce la possibilità di una qualche comunicazione tra loro, di un alfabeto comune tra le scienze, a livello dei loro fondamenti logici e ontologici.

[5] Richiamo, qui, a titolo di esempio un passo del Discorso di Giovanni Paolo II in occasione del Giubileo degli scienziati, del 25 Maggio 2000: «Oggi, “una grande sfida ci aspetta… quella di saper compiere il passaggio, tanto necessario quanto urgente, dal fenomeno al fondamentoNon è possibile fermarsi alla sola esperienza;… è necessario che la riflessione speculativa raggiunga la sostanza spirituale e il fondamento che la sorregge” (EnciclicaFides et ratio, n. 81). La ricerca scientifica si basa anch’essa sulle capacità della mente umana di scoprire ciò che è universale. Questa apertura alla conoscenza introduce al significato ultimo e fondamentale della persona umana nel mondo».

[6] Il “problema dei fondamenti” è nato, in ambito scientifico, principalmente nel quadro della logica-matematica, per la quale si trattava di dare una base priva di contraddizioni alla teoria dei numeri, alla quale si riconduceva, in sostanza tutto il resto. George Cantor (1845-1918) fece compiere un balzo straordinario alla matematica, verso l’ontologia, ponendo tra i suoi oggetti fondativi gli insiemi, cioè delle collezioni di oggetti di qualsiasi natura. Ai nostri giorni si sta, probabilmente, preparando un passo ulteriore volto a prendere in considerazione, come entità fondative (dette “primiive” dai matematici), non più semplicemente delle “collezioni” (logica estensionale), ma delle proprietà degli enti irriducibili ad insiemi (logica intensionale). Così, un po’ alla volta, le scienze si orientano a prendere in considerazione l’ente con tutte le sue caratteristiche (non solo quantitative): si tratta di un vero e proprio graduale passaggio dalla matematica alla ontologia e, di conseguenza da una fisica che si serve di una matematica puramente quantitativa, ad una fisica che si servirà di una matematica “ampliata” in senso ontologico.

[7] In ambito ingegneristico, l’impiego del computer ha richiesto ricerche di logica altrettanto approfondite quanto quelle che si sono sviluppate nell’ambito teorico della teoria dei fondamenti e l’ontologia formale (cioè una sorta di ontologia trattata mediante l’uso di simboli come oggi si fa in matematica e logica) ha incominciato a svilupparsi in vista di un tentativo di immettere nel computer delle informazioni non puramente quantitative. Questi sforzi si stanno rivelando, tra l’altro, molto interessanti per evidenziare le differenze tra l’intelligenza umana e la cosiddetta “intelligenza artificiale”: il dibattito è aperto da tempo tra quegli fisici, matematici, logici, cognitivisti, ecc., che ritengono di poter dimostrare che le operazioni della mente sono riducibili a calcolo (computabili) e quelli che ritengono, la contrario, la loro irriducibilità. Sono discussioni squisitamente filosofiche che pongonoproblemi antropologico-metafisici che nascono direttamente dalle scienze.

[8] L’interrogativo odierno è «se e come la verità possa tornare ad essere “scientifica”», cfr. J. Ratzinger, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena 2003, p. 201.

[9] Probabilmente se ne potranno indicare anche altre, ma qui mi limito a queste che mi sembrano comunque indicative di una situazione di fatto e sono sufficienti per introdurre le mie successive considerazioni.

[10] Non prendo qui neppure in considerazione quelle produzioni che, pur continuando a chiamarsi propriamente “teologiche”, non possono neppure essere considerate veramente tali nella misura in cui interpretano il dato rivelato in una prospettiva che si contrappone alla Tradizione e al Magistero.

[11] Ne sono un esempio gli ampliamenti della metafisica e della cosmologia aristotelica  che Tommaso dovette mettere a punto per affrontare le grandi problematiche trinitarie, cristologiche e saramentarie. Come egli partì dai risultati più rilevanti della scienza del suo tempo che provenivano dalla sintesi aristotelica, già vagliata e analizzata dal suo maestro Alberto Magno, così, oggi, sembra si possa partire da una messa a confronto della sintesi aristotelico-tomista con le problematiche ontologiche emergenti dalla nostra scienza, ampliandone gli orizzonti e utilizzando gli strumenti migliori che essa offre, quali il linguaggio formalizzato e i suoi metodi di dimostrazione. Questi strumenti offrono il vantaggio di essere in larga misura oggettivi e riconoscibili al di là delle differenze culturali e ideologiche di coloro che se ne servono e di ogni relativismo. Non si tratta, certo, di perseguire una strada in certo senso positivista o neopositivista, quanto di non perdere il “momento favorevole” che oggi le scienze stanno attraversando, nel quale si sta compiendo in esse una profonda revisione del metodo e dei presupposti. L’aver dimostrato l’insufficienza a far progredire ulteriormente la scienza, a partire dai presupposti finora accettati, apre la strada a nuovi presupposti, meno riduttivi, e più significativi in senso ontologico.

[12] Questo modo di procedere ricorda un po’ il metodo che Archimede diceva di aver utilizzato, nella sua ricerca scientifica, servendosi del metodo sperimentale per scoprire alcuni risultati di geometria che avrebbe poi dimostrato per via puramente razionale. L’esperienza aveva per la sua scienza un ruolo analogo a quello che la Scrittura potrebbe avere per scoprire alcune verità metafisiche da dimostrare filosoficamente.

[13] Quanto lungo possa essere, poi, il tempo di questa feconda provvisorietà non è dato di conoscerlo se non dopo che esso sia concluso ad opera di una nuova sintesi del pensiero che ristabilisca l’unità del sapere.

[14] In vista di questa nuova costruzione filosofico-scientifica sono oggi particolarmente interessanti, come si è detto, le problematiche inerenti i fondamenti delle scienze. Forse saranno proprio queste a “discincagliare” la filosofia…

[15] In questo caso si tratta, ovviamente, di una “fede umana” nell’operato di un’altra disciplina e di quanti lavorano ad elaborarla.

[16] Non dimentichiamo che questa sorta di paragone, qui appena accennato, tra la teologia e la fisica matematica, e che può meravigliare teologi e scienziati odierni, era del tutto normale per Tommaso che riconosceva adentrambe queste discipline, pur con le debite differenze, lo statuto epistemologico di scientiae mediae (cfr. I, q. 1, a. 2; In Boeth. De Trin.ps. 3, q. 5, a. 3 ad 6).

[17] Apparentemente c’è anche una certa comunicazione a livello mediatico, ma raramente viene compiuta una sistematica comparazione metodologica e contenutistica corretta.

[18] Si deve rilevare come la scelta rinunciataria e ultimamente scettica, rappresenta una tentazione che, almeno ai nostri giorni, “attanaglia” più facilmente i filosofi che gli scienziati, se non altro perché questi ultimi vedono delle applicazioni delle loro conoscenze che rispondono nei fatti.

[19] Ed. Jaca Book, Milano 1996,

[20] p. 74.

[21] p. 73.

[22] Ibidem.

[23] Ibidem.

[24] Ibidem.

[25] Una scelta pragmatica che, se può essere accettabile in via provvisoria, a lungo andare tende a svuotare di valore probativo e conoscitivo la disciplina entro la quale viene compiuta, destinandola gradualmente a divenire una semplice narrazione.

[26] Ivi, pp. 73-74.

[27] Cioè da una certa visione teorico-scientifica e da un certo metodo sperimentale.

[28] T.S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Come mutano le idee nella scienza, Einaudi, Milano 1978, pp. 101-102.

[29] G. Biffiop. cit., p. 74.

[30] Ibidem.

[31] Ivi, p. 75.

[32] E più in generale naturali e non solo.

[33] A livello della nostra conoscenza umana discorsiva la nostra mente non è in grado di cogliere la realtà con un solo principio, ma è in grado di riconoscere come tutto si riconduce ad unum, ad un solo essere che è causa di tutte le cose.

[34] Ibidem.

[35] Non entrerò qui nel merito, come non l’ho fatto per la problematica teologica. Per un’introduzione ai problemi e alle questioni filosofico-teologiche connesse e per un’ampia bibliografia di carattere interdisciplinarerimando alle voci attinenti a questi temi del Dizionario interdisciplinare… già citato.

[36] È frequente, ormai, anche per i non addetti ai lavori, imbattersi in letture che citano il paradosso di Russell o il teorema di Gödel.

[37] Ibidem.

[38] Ivi, p. 76.

[39] Una introduzione elementare a queste problematiche, oltre che una lettura sintetica del cammino della razionalità scientifica proposta in A. Strumia, Le scienze e la pienezza della razionalità, Cantagalli, Siena 2003.