FEDE NELLA SCIENZA E RAGIONI DELLA FEDE
di
Alberto Strumia
Premessa
Nelle riflessioni che seguono vengono svolte alcune considerazioni a partire dalla formula sintetica espressa nel titolo: «Fede nella scienza e ragioni della fede», tenendo presente in buona parte e come una linea di guida, l’analisi storica e metodologica che offerta dal quarto capitolo dell’enciclica Fides et ratio di Giovanni Paolo II. Successivamente, prendendo in considerazione alcuni aspetti filosofici ed epistemologici suggeriti dal quadro delle recenti ricerche scientifiche, vengono indicate delle possibili piste di indagine che, da un lato paiono mostrare la tendenza ad ampliarsi della razionalità scientifica in un superamento del riduzionismo, e dall’altro sembrano utili per stimolare il pensiero filosofico e teologico nella direzione di una ripresa di sistematicità dimostrativa. Non ci si meraviglierà troppo, perciò, se l’articolo contiene numerose e ampie citazioni, proprio perché intende documentare lo stato attuale di una via di indagine ritenuta oggi effettivamente percorribile.
In una prima sezione vengono presi in considerazione alcuni aspetti storici e metodologici inerenti la seconda parte del titolo: «ragioni della fede», la quale ribadisce, anzitutto, che una fede, di qualunque natura essa sia — la fede, virtù teologale, fede in Dio che si rivela, così come la fede semplicemente umana, cioè il credito, l’assenso, dato volontariamente a qualcuno che comunica, ad un interlocutore, qualcosa come vera — per essere tale e non una cieca e infondata credulità, richiede di poggiare su delle ragioni: ragioni che non dimostrano la verità di quello che viene detto, ma che dimostrano la credibilità di chi parla. Nella vita quotidiana, come anche nell’attività scientifica, questa fede umana è, tra l’altro, inevitabile dal momento che non possiamo personalmente rifare tutti gli esperimenti e ripercorrere i passaggi di tutte le dimostrazioni. [1]
Nella seconda sezione viene presa in considerazione, invece, la prima parte della formula: «fede nella scienza», che dice anzitutto fiducia nella ragione dell’uomo e, in particolare, in quella forma di razionalità che è quelladimostrativa — a volte di natura solo teorica e in altri casi anche di natura sperimentale, in quanto fondata sulle prove fornite dall’esperienza — che è propria delle scienze come oggi le intendiamo. Una fiducia, fondata sui fatti, fiducia che questa razionalità porti ad accrescere le nostre conoscenze e il nostro rapporto con l’universo.
Come premessa necessaria occorre mettere, da subito, in guardia nei confronti del fideismo, cioè quell’atteggiamento che vede tutta e sola la ragione collocata nella scienza e tutta e sola l’irrazionalità dalla parte della fede. È fideista chi considera la fede come uno slancio del sentimento, senza motivate ragioni, come un salto nel buio fatto per una sorta di istinto. È la tentazione più facile per lo scienziato credente, razionale con la sua scienza ed emotivo nel suo credere. Questa posizione, tuttavia, se può avere la parvenza di offrire una soluzione provvisoria di compromesso esistenzialmente accettabile, non è né soddisfacente dal punto di vista razionale (in quanto propone una sorta di dottrina della doppia verità), né tanto meno è accettabile dal punto di vista della dottrina cattolica.
1. Ragioni della fede
Incominceremo la nostra riflessione da questo secondo versante del nostro titolo con una domanda che nasce da un approccio storico e da questo intende evidenziare alcuni aspetti del metodo con cui la ragione e la fede si sono trovate a collaborare per costruire una sintesi di pensiero filosofico-teologico.
Quali sono i passi fondamentali che ragione e fede hanno compiuto insieme nel cammino della storia?
Ci serviamo, per rispondere, del tracciato offerto nel quarto capitolo della Fides et ratio.
1.1. Liberazione della religione dal mito e sua razionalizzazione
Anzitutto l’enciclica evidenzia come nel corso della storia del pensiero, prima ancora della rivelazione cristiana, è stato necessario compiere un passo preliminare fondamentale per costruire la stessa razionalità dimostrativa: si tratta del passaggio dal mito alla filosofia.
«Uno degli sforzi maggiori che i filosofi del pensiero classico operarono, infatti, fu quello di purificare la concezione che gli uomini avevano di Dio da forme mitologiche. Come sappiamo, anche la religione greca, non diversamente da gran parte delle religioni cosmiche, era politeista, giungendo fino a divinizzare cose e fenomeni della natura. Fu compito dei padri della filosofia far emergere il legame tra la ragione e la religione. Allargando lo sguardo verso i principi universali, essi non si accontentarono più dei miti antichi, ma vollero giungere a dare fondamento razionale alla loro credenza nella divinità. Si intraprese, così, una strada che, uscendo dalle tradizioni antiche particolari, si immetteva in uno sviluppo che corrispondeva alle esigenze della ragione universale. Il fine verso cui tale sviluppo tendeva era la consapevolezza critica di ciò in cui si credeva. La prima a trarre vantaggio da simile cammino fu la concezione della divinità. Le superstizioni vennero riconosciute come tali e la religione fu, almeno in parte, purificata mediante l’analisi razionale. Fu su questa base che i Padri della Chiesa avviarono un dialogo fecondo con i filosofi antichi, aprendo la strada all’annuncio e alla comprensione del Dio di Gesù Cristo».[2]
Si tratta di quel passaggio fondamentale, e ben noto agli storici delle culture, che la razionalità umana si trovò a compiere quasi sincronicamente, presso tutte le civiltà avanzate, intorno al VI secolo a.C.
1.2. Elaborazione dello spazio teorico per «pensare il cristianesimo»
Giunti alle origini del cristianesimo la fede ha cercato di fondare la sua credibilità teoretica anzitutto utilizzando gli strumenti della logica dimostrativa e della filosofia.
— Il primo lavoro da compiere per garantire credibilità alla fede riguardava la necessità di dimostrare la non contraddittorietà logica del contenuto della rivelazione, la sua non irrazionalità e anzi la sua piena razionalità. E questo è stato uno dei compiti fondamentali degli apologisti a partire dal II secolo. Il contenuto della rivelazione può oltrepassare le capacità della ragione di raggiungerlo da sola, ma non può essere accusato di essere contro le regole della logica e quindi ridicolizzato e screditato.
— Un secondo compito, più durevole nel tempo e impegnativo, ha richiesto il lungo lavoro di rielaborazione delle stesse categorie filosofiche per ampliarne la capacità di contenere, fino a poter accogliere, senza eccessive limitazioni, la ricchezza concettuale della rivelazione che andava oltre ciò che il filosofo da solo poteva elaborare.
«Nella storia di questo sviluppo è possibile, comunque, verificare l’assunzione critica del pensiero filosofico da parte dei pensatori cristiani. Tra i primi esempi che si possono incontrare, quello di Origene è certamente significativo. Contro gli attacchi che venivano mossi dal filosofo Celso, Origene assume la filosofia platonica per argomentare e rispondergli. Riferendosi a non pochi elementi del pensiero platonico, egli inizia a elaborare una prima forma di teologia cristiana. Il nome stesso, infatti, insieme con l’idea di teologia come discorso razionale su Dio, fino a quel momento era ancora legato alla sua origine greca. Nella filosofia aristotelica, ad esempio, il nome designava la parte più nobile e il vero apogeo del discorso filosofico. Alla luce della Rivelazione cristiana, invece, ciò che in precedenza indicava una generica dottrina sulle divinità venne ad assumere un significato del tutto nuovo, in quanto definiva la riflessione che il credente compiva per esprimere la vera dottrina su Dio. Questo nuovo pensiero cristiano che si andava sviluppando si avvaleva della filosofia, ma nello stesso tempo tendeva a distinguersi nettamente da essa. La storia mostra come lo stesso pensiero platonico assunto in teologia abbia subito profonde trasformazioni, in particolare per quanto riguarda concetti quali l’immortalità dell’anima, la divinizzazione dell’uomo e l’origine del male».[3]
Tutto questo lavoro ha significato la creazione dello spazio teorico per rendere pensabile il cristianesimo nel quadro storico-culturale del tempo e quindi vivibilea pieno titolo nella società di allora. Basti pensare alla straordinaria opera di messa a punto di un linguaggio adatto ad esprimere i contenuti teologici e filosofici della rivelazione, formulati prima nella lingua greca, poi ripensati e «ritradotti» in quella latina.[4] L’esempio più formidabile di ampliamento di significato è offerto, quasi sicuramente, dalla parola «persona» che dal significato pagano originario di maschera teatrale è giunto ad indicare la persona umana, come ancora oggi la intendiamo, e le persone divine della Trinità.
1.3. I padri: confronto tra filsofia greca e la concezione conteuta nella rivelazione
Un passo ulteriore che possiamo racchiudere sotto la formula «ragioni della fede» fu quello di non limitarsi solamente a mostrare la non contraddittorietà dei contenuti della rivelazione (primo passo), né di accontentarsi di creare uno spazio teorico per la pensabilità di quei contenuti (secondo passo), ma di mostrare addirittura la superiorità della concezione cristiana della realtà (mondo, uomo, Dio) rispetto alle filosofie, riconoscendo nel contempo quelli che erano gli elementi comuni. Il cristianesimo viene concepito, oltre che come avvenimento storico dell’incarnazione e della redenzione, anche come portatore della vera filosofia.[5]
«Proprio qui si inserisce la novità operata dai Padri. Essi accolsero in pieno la ragione aperta all’assoluto e in essa innestarono la ricchezza proveniente dalla Rivelazione. L’incontro non fu solo a livello di culture, delle quali l’una succube forse del fascino dell’altra (…)
Oltrepassando il fine stesso verso cui inconsapevolmente tendeva in forza della sua natura, la ragione poté raggiungere il sommo bene e la somma verità nella persona del Verbo incarnato. Dinanzi alle filosofie, i Padri non ebbero tuttavia timore di riconoscere tanto gli elementi comuni quanto le diversità che esse presentavano rispetto alla Rivelazione. La coscienza delle convergenze non offuscava in loro il riconoscimento delle differenze».[6]
Con S. Agostino, nel IV secolo cristiano, questa opera di elaborazione e sistematizzazione teologica, fondata sulla rielaborazione della tradizione platonica, raggiunge un vertice che sarà un punto di riferimento per tutti i teologi successivi.
1.4. La scolastica: la teologia come scienza
Con la Scolastica e in particolare con S. Alberto e specialmente S. Tommaso viene addirittura compiuta la fondazione e la messa a punto di una teologia come scienza, dimostrativa e totalmente sistematica, basata sulla rielaborazione della filosofia aristotelica.[7]
«Più radicalmente, Tommaso riconosce che la natura, oggetto proprio della filosofia, può contribuire alla comprensione della rivelazione divina. La fede, dunque, non teme la ragione, ma la ricerca e in essa confida. Come la grazia suppone la natura e la porta a compimento, così la fede suppone e perfeziona la ragione. Quest’ultima, illuminata dalla fede, viene liberata dalle fragilità e dai limiti derivanti dalla disobbedienza del peccato e trova la forza necessaria per elevarsi alla conoscenza del mistero di Dio Uno e Trino. Pur sottolineando con forza il carattere soprannaturale della fede, il Dottore Angelico non ha dimenticato il valore della sua ragionevolezza; ha saputo, anzi, scendere in profondità e precisare il senso di tale ragionevolezza. La fede, infatti, è in qualche modo “ esercizio del pensiero”; la ragione dell’uomo non si annulla né si avvilisce dando l’assenso ai contenuti di fede; questi sono in ogni caso raggiunti con scelta libera e consapevole».[8]
E si direbbe che la chiave di volta, dal punto di vista logico-metafisico, di tutto il suo impianto sistematico sia rappresentato dalla dottrina dell’analogia-partecipazione che permette alla ragione di compiere due grandi passi:
— anzitutto di riconoscere modi e gradi di perfezione differenziati nella realtà (ente), nella sua conoscibilità (vero), nel suo essere desiderabile (bene), nell’organicità del suo essere un tutto (uno);
— e insieme di elevarsi dall’esperienza dei gradi materiali e sensibili dell’essere alla conoscenza, pur limitata, ma vera, dei livelli superiori non immediatamente e adeguatamente conoscibili, ma neppure del tutto inaccessibili.
2. Fede nella scienza
Giunti al termine della costruzione dell’edificio delle «ragioni della fede», la ragione sembra mettersi a guardare dall’alto la sua abile e perfetta opera ed essere tentata di compiacersi più di se stessa e della sua scienza («fede nella scienza»), del suo potere di dominare la verità più che di contemplarla. Così, a partire proprio dal XIII secolo, dagli stessi contemporanei di S. Tommaso, si comincerà a comprendere sempre meno la lezione dell’analogiadell’ente e del vero e, in nome di un maggior grado di certezza della conoscenza, ci si concentrerà sempre di più sull’univocità, più facile da comprendere, più agevole da controllare: questo modo di procedere apparirà addirittura, ad alcuni, come un servizio alla verità, anziché una limitazione, un miglioramento della scienza anziché un suo impoverimento.[9]
2.1. Univocità e nominalismo: il ruolo esclusivo della matematica
Ma si tratterà di un potenziamento unilaterale di qualche aspetto della razionalità a scapito degli altri. E questo processo culminerà con il sorgere e lo svilupparsi della scienza moderna, resa perfettamente univoca grazie alla matematizzazione. La ricaduta della perdita dell’analogia sulla teologia si farà sentire prima nell’univocità del pensiero protestante, poi nell’esasperazione quasi sofistica di certa ultima scolastica e infine nella riduzione della stessa teologia a pura narrazione.
«Con il sorgere delle prime università, la teologia veniva a confrontarsi più direttamente con altre forme della ricerca e del sapere scientifico. Sant’Alberto Magno e san Tommaso, pur mantenendo un legame organico tra la teologia e la filosofia, furono i primi a riconoscere la necessaria autonomia di cui la filosofia e le scienze avevano bisogno, per applicarsi efficacemente ai rispettivi campi di ricerca. A partire dal tardo Medio Evo, tuttavia, la legittima distinzione tra i due saperi si trasformò progressivamente in una nefasta separazione. A seguito di un eccessivo spirito razionalista, presente in alcuni pensatori, si radicalizzarono le posizioni, giungendo di fatto a una filosofia separata e assolutamente autonoma nei confronti dei contenuti della fede. Tra le altre conseguenze di tale separazione vi fu anche quella di una diffidenza sempre più forte nei confronti della stessa ragione. Alcuni iniziarono a professare una sfiducia generale, scettica e agnostica, o per riservare più spazio alla fede o per screditarne ogni possibile riferimento razionale.
Insomma, ciò che il pensiero patristico e medievale aveva concepito e attuato come unità profonda, generatrice di una conoscenza capace di arrivare alle forme più alte della speculazione, venne di fatto distrutto dai sistemi che sposarono la causa di una conoscenza razionale separata dalla fede e alternativa ad essa».[10]
Gradualmente quegli aspetti della razionalità, che prima era concepita analogicamente, verranno a contrapporsi anziché integrarsi: ciò che prima era reale sarà considerato un puro nome (nominalismo). Il sapere passerà da una struttura organica e analogica ad una struttura dialettica: contrapposizione in luogo della integrazione.[11]
2.2. Il pensiero moderno e contemporaneo
L’enciclica continua, poi, la sua lettura della storia del pensiero occidentale riferendosi, allo sviluppo del pensiero filosofico e scientifico moderno e contemporaneo fino ai nostri giorni.
«Le radicalizzazioni più influenti sono note e ben visibili, soprattutto nella storia dell’Occidente. Non è esagerato affermare che buona parte del pensiero filosofico moderno si è sviluppato allontanandosi progressivamente dalla Rivelazione cristiana, fino a raggiungere contrapposizioni esplicite. Nel secolo scorso, questo movimento ha toccato il suo apogeo. Alcuni rappresentanti dell’idealismo hanno cercato in diversi modi di trasformare la fede e i suoi contenuti, perfino il mistero della morte e risurrezione di Gesù Cristo, in strutture dialettiche razionalmente concepibili. A questo pensiero si sono opposte diverse forme di umanesimo ateo, elaborate filosoficamente, che hanno prospettato la fede come dannosa e alienante per lo sviluppo della piena razionalità. Non hanno avuto timore di presentarsi come nuove religioni formando la base di progetti che, sul piano politico e sociale, sono sfociati in sistemi totalitari traumatici per l’umanità.
Nell’ambito della ricerca scientifica si è venuta imponendo una mentalità positivista che non soltanto si è allontanata da ogni riferimento alla visione cristiana del mondo, ma ha anche, e soprattutto, lasciato cadere ogni richiamo alla visione metafisica e morale. La conseguenza di ciò è che certi scienziati, privi di ogni riferimento etico, rischiano di non avere più al centro del loro interesse la persona e la globalità della sua vita. Di più: alcuni di essi, consapevoli delle potenzialità insite nel progresso tecnologico, sembrano cedere, oltre che alla logica del mercato, alla tentazione di un potere demiurgico sulla natura e sullo stesso essere umano».[12]
Ormai il processo ha invertito la sua direzione: si cerca di estrapolare alcune categorie filosofiche cristiane trapiantandole in sistemi filosofici non cristiani. Questa operazione, tuttavia, ha trascinato con sé anche elementi indispensabili alla ragione naturale che si è gradualmente trovata senza un fondamento su cui procedere.
«Come conseguenza della crisi del razionalismo ha preso corpo, infine, il nichilismo. Quale filosofia del nulla, esso riesce ad esercitare un suo fascino sui nostri contemporanei. I suoi seguaci teorizzano la ricerca come fine a se stessa, senza speranza né possibilità alcuna di raggiungere la meta della verità. Nell’interpretazione nichilista, l’esistenza è solo un’opportunità per sensazioni ed esperienze in cui l’effimero ha il primato. Il nichilismo è all’origine di quella diffusa mentalità secondo cui non si deve assumere più nessun impegno definitivo, perché tutto è fugace e provvisorio.[13]
Non è da dimenticare, d’altra parte, che nella cultura moderna è venuto a cambiare il ruolo stesso della filosofia. Da saggezza e sapere universale, essa si è ridotta progressivamente a una delle tante province del sapere umano; per alcuni aspetti, anzi, è stata limitata a un ruolo del tutto marginale. Altre forme di razionalità si sono nel frattempo affermate con sempre maggior rilievo, ponendo in evidenza la marginalità del sapere filosofico. Invece che verso la contemplazione della verità e la ricerca del fine ultimo e del senso della vita, queste forme di razionalità sono orientate — o almeno orientabili — come « ragione strumentale » al servizio di fini utilitaristici, di fruizione o di potere».[14]
2.3. La scienza odierna: elementi di novità
L’enciclica arresta ora la sua analisi storica e pone il problema di un recupero della razionalità in senso forte, indicando quali aspetti di tale razionalità sono indispensabili per una corretta filosofia e per una vera teologia. Rimane aperto il campo per i ricercatori al fine di individuare una strada operativa per la rifondazione della razionalità.
«Non sembri fuori luogo, pertanto, il mio richiamo forte e incisivo, perché la fede e la filosofia recuperino l’unità profonda che le rende capaci di essere coerenti con la loro natura nel rispetto della reciproca autonomia».[15]
A questo punto ci chiediamo come questo recupero possa avvenire e se vi siano indizi di una tale possibilità di rigenerazione della razionalità. Qui l’enciclica lascia aperto il campo alla ricerca che ancora deve essere compiuta.
Ed è a questo punto che vorrei fare un’osservazione che a me pare interessante. Per quanto possa sembrare strano, a prima vista, i segni più indicativi di una dilatazione della razionalità sembrano venire oggi dal mondo scientifico, più che da quello filosofico. D’altra parte la scienza, a differenza della filosofia, ha resistito finora abbastanza bene alla perdita di fiducia nella ragione. Seguendo rigorosamente le proprie strade e i propri metodi le scienze — quasi tutte e contemporaneamente — sembrano oggi accorgersi, dall’interno stesso del loro procedere, della necessità di un ampliamento del concetto stesso di razionalità scientifica.
«Quali che siano le nostre preoccupazioni professionali, non possiamo non avere la sensazione di vivere in un’era di transizione. (…) Non è possibile anticipare che cosa nascerà da questo periodo di transizione, ma è chiaro che la scienza è obbligata a giocare un ruolo sempre più importante nello sforzo di affrontare la sfida di capire e di dare nuova forma all’ambiente che ci circonda. Colpisce il fatto che in questo momento cruciale la scienza stessa stia attraversando un periodo di riconcetualizzazione. (…) È interessante indagare su come un simile cambiamento sia potuto avvenire in un così breve lasso di tempo. È la conseguenza di risultati inattesi, ottenuti in campi molto diversi della fisica e della chimica come le particelle elementari, la cosmologia, e lo studio delle autoorganizzazioni nei sistemi lontani dall’equilibrio».[16]
E ancora, in una relazione ad un convegno sulla complessità si dice:
«In una messa in causa dell’ottimismo semplificatore che assimilava la razionalità e la possibilità di prevedere e di controllare si congiungono al limite una critica di ciò che definiremo “la scienza classica” e l’affermazione che per pensare il nostro mondo in crisi occorre rinnovare le categorie della nostra razionalità. Ma d’altra parte questa nozione dipende anche dagli sviluppi positivi delle scienze matematiche e fisiche».[17]
Recentemente, poi, hanno avuto un loro sviluppo particolarmente interessante le ricerche nella direzione dell’elaborazione di teorie ampie
«dei Fondamenti della Matematica in cui vengono considerati oggetti qualitativamente diversi, e precisamente qualità, relazioni, collezioni, numeri naturali e sistemi finiti. (…) I caratteri principali delle teorie base (…) sono:
— non riduzionismo: le teorie considerano varie specie di oggetti che sono tutte considerate “ugualmente primitive” e non le riducono ad un’unica specie fondamentale (classi, relazioni o operazioni) tramite ingegnose codifiche, come nelle più conosciute teorie funzionali; (…)
— un notevole grado di autoriferimento: molte relazioni, operazioni e proprietà che descrivono il comportamento globale degli oggetti della teoria sono a loro volta “grandi” oggetti della teoria (…): solo l’insorgere di antinomie limita l’introduzione di oggetti che forniscono una completa autodescrizione. (…)
Le teorie base sono “teorie aperte” concepite per essere ampliate in molte direzioni; esse intendono essere, appunto, una “base” su cui “innestare” i vari rami della Matematica ed eventualmente di altre forme del sapere umano».[18]
E non ci si limita appena a constatare il fatto che tutte le scienze, a cominciare addirittura da quelle considerate più dure(fisica, chimica, matematica), conoscono un momento di «transizione» e necessitano di una «riconcettualizzazione» e «occorre rinnovare le categorie della nostra razionalità » elaborando «teorie ampie», ma addirittura si guarda con ammirazione e desiderio di imitazione alla concezione organica delle scienze medioevali.
«Per quanto la biologia molecolare, le simulazioni al computer e la scienza non lineare, considerate separatamente, potessero essere interessanti, Cowan [Si tratta di George A. Cowan ex capo ricercatore a Los Alamos] aveva il sospetto che esse rappresentassero solo un inizio. Era più che altro una sensazione viscerale, eppure era convinto dell’esistenza di un’unità sottostante, che avrebbe abbracciato infine non solo la fisica e la chimica, ma anche la biologia, il trattamento dell’informazione, l’economia, la scienza politica, e ogni altro aspetto delle questioni umane. Quel che aveva in mente era una concezione quasi medievale del sapere. (…) “Una volta l’intero tessuto intellettuale era unitario, senza soluzioni di continuità”, dichiara Cowan. E forse poteva tornare ad esserlo».[19]
In particolare sembra riemergere dall’interno delle scienze l’esigenza di riscoprire, formulandola nel linguaggio della logica attuale l’antica teoria dell’analogia. Una riscoperta fatta quasi ex novo, in forza delle esigenze interne al pensiero scientifico. Non si tratta, appena di rilevare come gli scienziati, da sempre, pensino analogicamente, servendosi di analogie per elaborare le proprie teorie, ma lasciando l’analogia all’esterno delle teorie stesse, quanto piuttosto di fondare una teoria logico-scientifica dell’analogia e di servirsene nelle dimostrazioni. Questa esigenza nasce dalla constatazione che
— la natura è organizzata secondo livelli collegati tra loro, ma nel contempo irriducibili gli uni agli altri;
— per conoscere scientificamente la realtà occorre adeguare gli strumenti della loigca e della matematica a questo fatto;
— le teorie scientifiche non possono fondarsi su se stesse, non essendo sistemi chiusi in cui tutto si piò dimostrare dall’interno (teorema di Gödel).
Così nel mondo biologico si fa notare, come ad esempio
«La caratteristica fondamentale dell’organizzazione interna dei sistemi biologici è quella di essere strutturata in una gerarchia di livelli caratterizzata da proprietà non riducibili a quelle del livello più elementare».[20]
Anche in matematica, nella geometria dei frattali compaiono strutture che fanno pensare ad una sorta di analogia: forme che si attuano a vari livelli in modo simile ma non identico. Ad esempio l’insieme di Mandelbrot
«contiene un numero infinito di minuscole copie di se stesso, e chi osservasse al microscopio una porzione della frontiera ne scorgerebbe diverse; tuttavia tali copie sono immerse in una rete di filamenti che dipendono strettamente dalla porzione di frontiera che si osserva. Inoltre, date due copie di dimensioni comparabili, poste a una certa distanza l’una dall’altra, il rapporto distanza/dimensione sembra dipendere non solo dalla porzione di frontiera osservata, ma anche dall’ingrandimento».[21]
Situazioni del genere si hanno in tutte quelle teorie che comportano l’autoreferimento senza contraddizioni (collezioni che contengono in qualche modo se stesse, enunciati che parlano in qualche modo di se stessi, ecc.).
Ma la punta più avanzata in cui la scienza sembra spingersi verso la metafisica si ha nell’ambito della teoria dei fondamenti della matematica là dove si parla dello stesso modo di concepire l’esistenza degli oggetti matematici. Per la scuola formalista, infatti, esistenza si identifica con non contraddittorietà: basta che un ente matematico possa essere definito senza contraddizioni per ritenerlo esistente. Per la scuola intuizionista, invece, esistenzasignifica costruibilità: non basta definire qualcosa per considerarlo esistente, ma occorre costruirne un esemplare (modello). Sono due posizioni agli antipodi: l’una punta tutto sull’universale, l’altra sul modello singolare.
«Così appare evidente come nella matematica moderna si sia inserito uno iato fra universalità ed esistenzialità delle predicazioni. Tale iato dipende essenzialmente dal fatto che questi due approcci ai fondamenti della matematica, formalista ed intuizionista, esemplificano essenzialmente i due filoni razionalista ed empirista del pensiero occidentale. La posizione tomista risulta così essere la classica via media fra formalismo e intuizionismo e perciò essa si pone in qualche modo dopo di esse, anche se storicamente le precede. Infatti se la distinzione reale fra essenza ed esistenza sembrerebbe avvicinarla alla posizione intuizionista, il fatto che essenza ed esistenza siano poste in rapporto di reciproca determinazione garantisce della loro intrinseca relazione in questo avvicinandosi al nucleo della posizione razionalista. Allo stesso tempo, il fatto che questa relazione per ciascun ente matematico non sia data una volta per sempre in qualche Collezione Assoluta di enti-essenze già tutti definiti e quindi per questo già esistenti in atto, ma sia in qualche modo in fieri (non sia dunque un’identità assoluta fra essenza ed esistenza), garantisce della fondamentale differenza della posizione tomista rispetto al nucleo razionalista, parmenideo-platonico, del pensiero occidentale».[22]
Conclusione
A questo punto la strada da fare è certamente moltissima, ma sarebbe molto bello se le aperture delle scienze odierne potessero essere di qualche utilità per restituire alla filosofia e alla teologia il carattere di scienze dimostrative; e tutto questo sembrerebbe poter avvenire per l’esigenza stessa, interna alle scienze, di giungere a porre i propri fondamenti su una razionalità analogica anziché solo univoca. Ci si chiederà: come mai solo ora ci se n’è accorti? E si dovrà rispondere: perché solo ora si sono raggiunti i limiti di un approccio univoco. Al punto al quale sono giunte le scienze devono aprirsi all’analogia, pena l’impossibilità stessa di progredire ulteriormente nel proprio itinerario di ricerca.
Lasciandosi un po’ andare all’entusiasmo per la ricerca della verità verrebbe voglia di dire che, dopo la sintesi agostiniana che ha elaborato l’incontro tra il cristianesimo e il pensiero platonico, dopo la sintesi tomista che operato l’incontro tra il cristianesimo e il pensiero aristotelico, si stiano schiudendo le porte per una nuova sintesi che veda l’incontro tra il cristianesimo e il pensiero scientifico. Che sia questo il compito culturale del terzo millennio cristiano. C’è da augurarselo.
[1] A proposito del problema della credibilità e della conoscenza per fede si può vedere utilmente S. Parenti, Comunicazione, credibilità di Cristo e fede, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1991.
[2] Fides et ratio, n.36.
[3] Ibidem, n.39.
[4] Si tratta di una elaborazione che, avviata con gli inizi stessi del cristianesimo proseguirà per tutto il medio evo e che vedrà in Boezio il grande maestro. Si veda a questo proposito M.D. Chenu, La teologia nel medio evo. La teologia nel XII secolo, jaca Book, Milano, 1971, cap.VI.
[5] «Quale pioniere di un incontro positivo col pensiero filosofico, anche se nel segno di un cauto discernimento, va ricordato san Giustino: questi, pur conservando anche dopo la conversione grande stima per la filosofia greca, asseriva con forza e chiarezza di aver trovato nel cristianesimo «l’unica sicura e proficua filosofia». Similmente, Clemente Alessandrino chiamava il Vangelo «la verafilosofia», Fides et ratio, n.38.
[6] Ibidem, n.41.
[7] Si veda in proposito, M.D. Chenu, La teologia come scienza. La teologia nel XIII secolo, Jaca Book, Milano 1971.
[8] Fides et ratio, n.43.
[9] Sarà anzitutto Ruggero Bacone (1214-92) a concepire l’idea della matematizzazione ad oltranza di ogni scienza in nome dell’assoluto grado di certezza della matematica: «Ora nella matematica ci è possibile giungere ad una verità completa senza errore e ad una certezza universale senza ombra di dubbio, poiché ad essa conviene procedere per dimostrazioni a priori, per causas proprias e necessarie. E la dimostrazione, si sa, porta alla verità (…) Per la qual cosa risulta che se nelle altre scienze vogliamo, com’è nostro dovere, arrivare ad una certezza che escluda ogni dubbio, e ad una verità, che escluda ogni errore, è necessario che la matematica diventi il fondamento del nostro conoscere, in quanto da essa preparati possiamo giungere alla piena certezza e alla verità anche nelle altre scienze», Opus Maius, traduzione italiana in A.A. V.V. Grande antologia filosofica, ed. Marzorati, vol.IV, pp.1299-1300. Più tardi Cartesio partirà dallo stesso tipo di considerazione: «Più di tutto mi piacevano le matematiche per la certezza ed evidenza dei loro ragionamenti, ma non ne vedevo ancora l’uso migliore; anzi, considerando che esse non venivano adoperate se non per le arti meccaniche, mi stupivo che su fondamenti così fermi e solidi non si fosse ancora costruito nulla di più alto e più importante», Discorso sul metodo I,4.
[10] Fides et ratio, n.45.
[11] Come osservava p. T. Tyn: «La dialettica è proprio agli antipodi dell’ analogia, dell’ analettica, in quanto in essa l’ univoco afferma la sua prepotenza annientando l’ equivoco dei singoli momenti finiti i quali non sono in grado di opporgli resistenza alcuna, perchè sono privi di ogni consistenza propria ed hanno senso solo in vista del risultato del cui divenire fanno parte. L’ unità analogica non annienta, ma suppone la diversità essenziale dell’ identità e della differenza proprio perchè relativa e accidentale; l’ unità dialettica anulla i suoi momenti, brucia le sue tappe, giacchè essa è essenzialmente la stessa identità dell’ identità e della differenza», T. Tyn,Metafisica della sostanza. Partecipazione e analog)ia entis, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1991, op. cit., p.355.
[12] Fides et ratio, n.46.
[13] ibidem.
[14] ibidem, n.47.
[15] ibidem, n.48.
[16] G. Nicolis e I. prigogine, La complessità. Esplorazioni nei nuovi campi della scienza, Einaudi, Torino 1991, pp.3, 5.
[17] I. Stengers, «Perché non può esserci un paradigma della complessità», in La sfida della complessità, a cura di G. Bocchi e M. Ceruti, Feltrinelli, Milano I ed.1985, VII ed. 1992, p.62.
[18] E. De Giorgi, M. Forti, G. Lenzi e V.M. Tortorelli, «Calcolo dei predicati e concetti metateorici in una teoria base dei Fondamenti della Matematica», Atti dell’Accademia Nazionale dei Lincei, Rend. mat., s.9, vol.VI (1995), 79.
[19] M.M. Waldrop, Complessità. Uomini e idee al confine tra ordine e caos, Instar Libri, Torino 1995, p.97.
[20] M. Cini, Un paradiso perduto. Dall’universo delle leggi naturali al mondo dei processi evolutivi, Feltrinelli, Milano 1994, p.130.
[21] H.O. Peitgen e P.H. Richter, La bellezza dei frattali, Boringhieri, Torino 1987, p.158.
[22] G. Basti e A.L. Perrone, Le radici forti del pensiero debole, Il Poligrafo - Pontifica Università Lateranense, Padova 1996, pp.222-223.