Due concezioni di scienza a confronto

Due concezioni di scienza a confronto

di Alberto Strumia

 

 Premessa - 1. Evoluzione della nozione di scienza - 2. Alcuni problemi dell’epistemologia contemporanea - 3. Prospettive per una ricerca

 

Premessa

Questo contributo vorrebbe realizzare, pur nei limiti di brevità che è necessario rispettare, un confronto fra due epistemologie: quella della scienza moderna o galileiana e quella delle scienze medioevali, nell’inquadramentoaritstotelico–tomista.

Tale confronto è

— anzitutto possibile, dal momento che il tipo di scienza che si svilupperà come paradigmatico nell’ambito scienza moderna, si trova compreso come un caso particolare nel quadro epistemologico aristotelico–tomista;

— in secondo luogo esso non ha un interesse puramente storico, in quanto, sembra poter costituire una strada privilegiata per offrire quegli strumenti di indagine che sono indispensabili per formulare una scienza adeguata dell’uomo.

Se nella scienza medioevale alcuni aspetti cosmologici sono senz’altro stati superati dalla scienza moderna, altri aspetti, in un primo tempo rifiutati a causa di una contrapposzione ideologica fra medio evo e modernità, attendono ancora di essere ricuperati, e possono essere sistematizzati con profitto, acquistando piena dignità scientifica. Si otterrebbe in questo modo il duplice vantaggio di ampliare l’orizzonte della scienza moderna e di riformulare in termini attuali conquiste preziose e insostituibili del pensiero antico, oggi divenuti inintelligibili a causa di qualche fraintendimento filosofico.

— Il primo passo di questa indagine consisterà, allora, nell’esaminare sommariamente, che cosa si intenda per scienza (speculativa) nell’epistemologia aristotelico–tomista e come, storicamente, si siano create le premesse per il costituirsi della scienza galileiana.

— Il secondo passo si limiterà ad accennare ad alcuni problemi inerenti i fondamenti della scienza moderna che coinvolgono il suo rapporto di dipendenza da ciò che viene chiamato genericamente metafisica.

— Il terzo passo indicherà qualche prospettiva per una ricerca.

 

1. Evoluzione della nozione di scienza

Che cosa si deve intendere per scienza? E in che senso questa parola è stata impiegata prima del sorgere della scienza moderna, e che significato, invece, ha acquistato a partire dal costituirsi della scienza galileiana. Ci serviamo, per orientarici, di alcune considerazioni svolte in proposito da J. Maritain:

"Quale idea farci della scienza in generale, presa secondo la forma–limite che lo spirito ha di mira quando ha coscienza di sforzarsi verso quello che gli uomini chiamano sapere? L’idea che Aristotele e gli antichi se ne facevano è molto differente da quella che che se ne fanno i moderni, giacchè per costoro è la dignità eminente delle scienze sperimentali, scienze positive, scienze della natura, scienze dei fenomeni, o come dir si voglia, che attrae in sè la nozione di scienza; mentre per gli antichi è la dignità eminente della metafisica ad orientare tale nozione. Bisogna, dunque, guardarsi dall’applicare così com’è e senza precauzioni, la nozione aristotelico–tomista di scienza a tutto l’immenso materiale noetico che i nostri contemporanei sono soliti chiamare col nome di scienza: si incorrerebbe nei più gravi errori. Tuttavia per gli antichi e per i moderni, in ciò concordi, il tipo di scienza più chiara, più perfezionata, e più perfettamente a nostra portata, è fornito dalle matematiche; e si può pensare che a condizione, non dico di essere corretta e adattata, bensì suffcientemente approfondita ed epurata, la teoria intellettualistico–critica o realistico–critica della scienza, i cui principi sono stati stabiliti dai metafisici antichi e medievali, è la sola che ci dia un mezzo per veder chiaro nei problemi epistemologici, divenuti ai giorni nostri un vero caos.

Come, dunque, definire la scienza in generale e secondo il suo tipo ideale? Noi diremo che la scienza è una conoscenza di modo perfetto, più precisamente una conoscenza in cui, sotto la costrizione della evidenza, lo spirito assegna le ragioni d’essere delle cose, giacchè lo spirito non è soddisfatto che quando attinge non solo una cosa, un dato qualsiasi, ma anche ciò che fonda quel dato nell’essere e nell’intelligibilità. Cognitio certa per causasdicevano gli antichi, conoscenza per dimostrazione (o, in altre parole, mediatamente evidente) e conoscenza esplicativa". [1]

 

Per gli antichi

Per gli antichi, poi le scienze si dividevano in due categorie:

a) le scienze della spiegazione o deduttive (metafisica, matematica);

b) le scienze della constatazione o induttive (scienze empiriche naturali)

Si può ritenere che sia per gli antichi come per i moderni la scienza sia una conoscenza di tipo dimostrativo e come tale esplicativo, perchè riconduce a principi noti, delle conoscenze la cui causa resterebbe altrimenti sconosciuta. Inoltre sia per gli antichi come per i moderni una scienza necessita di fondamenti, cioè di punti di partenza che non possono essere dimostrati dalla stessa scienza che li assume come punti di partenza, e devono essere perciò dimostrati nell’ambito di una scienza più universale, perchè più astratta. Ora, nel quadro delle discipline filosofiche antiche le scienze erano orgnaizzate gerarchicamente secondo i differenti gradi di astrazione, per cui

"ogni disciplina superiore è regolatrice rispetto a quelle inferiori — nel senso che fornisce ad essa i fondamenti dai quali partire per sviluppare le sue deduzioni e spiegazioni dimostrative — la metafisica, poichè considera le supreme ragioni d’essere, sarà dunque la scienza regolatrice per eccellenza: scientia rectrix. Ma anche la matematica è una scienza deduttiva, una scienza del propter quid: essa tenderà quindi a regolare le parti inferiori del sapere, se non usurpare il campo della metafisica stessa". [2]

 

Per i moderni

Per i moderni continua a valere la distinzione precedente, ma, a differenza degli antichi, ciò che ha avuto una particolare enfasi è stata

"la grande scoperta dei tempi moderni, preparata dai dottori parigini del XIV secolo e da Leonardo da Vinci, attuata da Descartes e da Galilei (…) della possibilità di una scienza universale della natura sensibile, informata non dalla filosofia, ma delle matematiche; alludiamo alla scienza fisico–matematica. Questa scoperta ha suscitato grandi errori metafisici, nella misura in cui si è creduto che essa apportasse una vera filosofia della natura. In se stessa, da un punto di vista epistemologico, è una scoperta ammirevole, cui possiamo assegnare facilmente il suo posto nel sistema delle scienze.

È una scientia media, i cui esempi tipo, erano presso gli antichi, l’ottica geometrica e l’astronomia: una scienza intermedia, a cavallo tra la matematica e la scienza empirica della natura, una scienza cui il reale fisico fornisce la materia in virtù delle misurazioni che vi possiamo raccogliere, ma il cui oggetto formale e il cui procedimento di concettualizzazione restano matematici: intendiamo dire una scienza materialmente fisica e formalmente matematica". [3]

Per scienza galileiana intendiamo questo tipo di scienza: [4] essa è caratterizzata dal fatto che assume come scientia rectrix cioè come scienza deduttiva, mediante la quale formulare le definizioni e dedurre le spiegazioni dei dati dell’esperienza, la matematica e non una teoria di tipo metafisico o comunque filosofico.

Ciò ha due conseguenze dal punto di vista del potere conoscitivo della scienza moderna:

a) la matematica considera la realtà cogliendola sotto l’aspetto della materia intelligibile:

— in quanto intelligibile la realtà corporea viene colta non nelle sue connotazioni individuali, ma nelle sue connotazioni universali e astratte (al secondo grado di astrazione), e questo rende molto potente nel fare previsioni la scienza moderna di tipo fisico–matematico, in quanto le sue leggi sono formulate come principi universali;

— in quanto materia la realtà corporea viene colta non tanto come ente corporeo sostanziale ma sotto l’aspetto della quantità

"astrattivamente separata e ipostatizzata nella materia intelligibile". [5]

La matematica poi stabilisce delle relazioni fra le quantità, mediante uguaglianze, disuguaglianze, equazioni, ecc. In una prospettiva aristotelico–tomista si può rilevare come la realtà, così come viene colta da una scienza di tipo galileiano, è conosciuta sotto gli aspetti della quantità e della relazione, aspetti che sono importanti, ma accidentali per rapporto alla sostanza e non esaurienti dell’ente.

Una facile tentazione, quando si considera la scienza galileiana come l’unico tipo di scienza del reale, possibile, consiste allora nel pensare l’oggetto, conosciuto in termini di quantità e relazione, attribuendo a queste caratteristiche accidentali una sorta di carattere sostanziale, come se l’oggetto si esaurisse in ciò che di esso la scienza matematizzata può conoscere. Si tende allora a fare della matematica un sostituto della metafisica, della quale il pensiero non può fare a meno, riducendo l’essere come tale a quantità e relazione. È quanto tende a verificarsi nel pensiero filosofico contemporaneo che si ispira direttamente alla scienza moderna.

b) per quanto riguarda il modo di osservare la realtà, la scienza moderna può interrogare la realtà solamente in quanto caratterizzata dalla quantità e dalla relazione e come tale, in quanto è materiale e misurabile, e in quanto è capace di interazioni che modificano delle quantità misurabili.

 

Osservazione e matematizzazione

La storiografia delle scienze ha posto spesso l’accento sulla denominazione di sperimentale attribuita al metodo galileiano, [6] enfatizzando ad esempio il ruolo di un Francesco Bacone, sperimentatore, nella formazione dell’idea di scienza moderna e lasciando intendere che tale scienza si differenzierebbe da quella antica, in particolare da quella aristotelica che l’ha immediatamente preceduta, per il suo carattere di scienza dell’osservazione, in contrapposzione con il carattere non sperimentale, aprioristico della scienza aristorelica. [7]

In realtà la storiografia delle scienze più accurata ha dovuto rifiutare questo luogo comune, rovesciando quasi le parti e rilevando come la novità della scienza galileiana non consista tanto nel metodo dell’osservazione — in quanto anche Aristotele si basò sull’esperienza e così pure quel grande naturalista medioevale che fu Alberto Magno — quanto sulla matemaitzzazione dell’espriemento e dell’ipotesi esplicativa; matematizzazione che al tempo di Galileo si realizzò anzitutto come geometrizzazione della scienza.

"Il modo in cui Galileo concepisce un metodo scientifico corretto implica una predominanza della ragione sulla semplice esperienza, la sostituizione di modelli ideali (matematici) ad una realtà empiricamente conosciuta, il primato della teoria sui fatti… Un metodo in cui la teoria matematica determina la struttura stessa della ricerca speirmentale, o per riprendere i termini stessi di Galileo, un metodo che utilizza il linguaggio matematico (geometrico) per formulare le proprie domande alla natura e per interpretarne le risposte". [8]

 

Platonismo e aristotelismo nella scienza

Questa opzione per il modello ideale, che in questo caso è rappresentato dall’iperuranio delle idee matematiche, a scapito dell’osservazione non matematizzata, ma più qualitativa del metodo aristotelico, operata da Galileo, viene visto dagli storici del pensiero scientifco, in particolare da A. Koyré, come una chiara vittoria del platonismo sull’aristotelismo, almeno per come queste due scuole di pensiero vennero intese dal medio evo della scolastica fino a Galileo.

"Se tu reclami per la matematica uno stato superiore, se per lo più le attribuisci un valore reale e una posizione dominante nella fisica, sei platonico. Se invece vedi nella matematica una scienza astratta che ha perciò un valore minore di quelle — fisica e metafiisca — che trattano dell’essere reale, se in particolare affermi che la fisica non ha bisogno di altra base che l’esperienza e deve essere costruita direttamente sulla percezione, che la matematica deve accontentarsi di una parte secondaria e sussidiaria, sei un aristotelico. In questo dibattito non si pone in discussione la certezza — neppure gli aristotelici avrebbero dubitato della certezza delle dimostrazioni geometriche — ma l’Essere; e neppure l’uso della matematica nella scienza fisica — nemmeno gli aristotelici avrebbero mai negato il nostro diritto di misurare ciò che è misurabile e contare ciò che è numerabile — bensì la struttura della scienza e quindi la struttura dell’Essere. (…)

È evidente che per i discepoli di Galileo, come per i suoi contemporanei e predecessori, matematica significa platonismo. (…)

Il Dialogo e i Discorsi  [9] ci narrano la storia della scoperta o meglio della riscoperta del linguaggio parlato dalla Natura. Ci spiegano la maniera di interrogarla, cioè contengono la teoria di quella ricerca sperimetnale in cui la formulaizone dei postulati e la deduzione delle loro conseguenze precede e guida l’osservazione. Questa poi, almeno per Galileo, è una prova “di fatto”. La nuova scienza è per lui una prova sperimentale del paltonismo". [10]

Se è vero che lo sviluppo effettivo del metodo galileiano trova le sue maggiori realizzazioni nell’eopoca moderna, è altrettanto vero che la rivalità tra la visione aristotelica e quella platonica è ben antecedente ed ha conosciuto il suo acme nel periodo della scolastica medievale. [11]

La diversità di impostazione è identificabile, storicamente, nelle due scuole di pensiero, la francescana di chiara accentuazione platonica e quella domenicana, aristotelica. Geograficamente vediamo localizzate in maniera emergente le due linee di tendenza soprattutto a Parigi per il filone teologico, a Bologna per quello del diritto e a Oxford per il filone scientifico–matematico.

"Il contirbuto inglese alla storia dell’alta scolastica equilibra quello francese. Soprattutto nell’ordine francescano vi furono molti studiosi di nazionalità inglese. (…)

Qui specialmente a Oxford si formò una scuola con caratteristiche proprie. Fondatore della celebrità scientifica dell’università di Oxford fu Roberto Grossatesta, colui che fra l’altro ci introdusse i francescani. (…)

A differneza dei dotti parigini egli diede grande sviluppo alle scienze del quadrivio, specialmente alla matematica. (…)

Tra i francescani inglesi quello che diventò più celebre fu Ruggero Bacone (1214-92). Cresciuto sotto l’influenza di Grossatesta, Adamo Marsh, Tommaso di York ed altri dotti di Oxford, Ruggero Bacone non diventò professore, forse non fu neppure sacerdote. Dal pensiero speculativo egli si volse alle indagini enciclopediche nel campo della matematica, delle scienze naturali e della sociologia. Coltivò la scienza positiva per se tessa, ma anche per porla al servizio della teologia. Indipendente e ostinato, dotato di profonda intuizione e di acume critico, nella sua opera letteraria egli sviluppò dei concetti, che hanno importanza nella storia dello spirito non tanto per se stessi, quanto per la loro forza stimolante". [12]

Se dal punto di vista della teologia la prevalenza fu ottenuta dalla scuola aristotelica grazie all’opera di Alberto Magno e principalmente di Tommaso d’Aquino — la cui dottrina più tardi, soprattuto con il concilio di Trento, sarà fatta in buona parte propria dalla Chiesa e questo le garantirà una continuità fino ai nostri giorni — per quanto riguarda il filone delle scienze della natura la prevalenza fu, invece, nettamente platonica. Nella diversità di impostazione tra il metodo aristotelico del domenicano Alberto Magno e quello platonico–matematico del francescano Ruggero Bacone, fu quest’ultimo a prevalere, nello sviluppo che più tardi la scienza ebbe attraverso Copernico, Keplero, Galileo, Cartesio e Newton. [13]

Così si esprimeva Ruggero Bacone a proposito della matematica:

"Ora nella matematica ci è possibile giungere ad una verità completa senza errore e ad una certezza universale senza ombra di dubbio, poichè ad essa conviene procedere per dimostrazioni a priori, per causas proprias e necessarie. E la dimostrazione, si sa, porta alla verità. (…)

Soltanto nella matematica ci sono dimostrazioni nel vero senso della parola “per causa proprias”; e perciò soltanto nell’ambito e in virtù della matematica l’uomo può giungere alla verirtà. (…)

Perciò nella sola matematica si raggiunge la certezza piena.

Per la qual cosa risulta che se nelle altre scienze vogliamo, com’è nostro dovere, arrivare ad una certezza che escluda ogni dubbio, e ad una verità, che escluda ogni errore, è necessario che la matematica diventi il fondamento del nostro conoscere, in quanto da essa preparati possiamo giungere alla piena certezza e alla verità anche nelle altre scienze…" [14]

Va sottolineato che anche gli aristotelici avevano riconosciuto un ruolo priviligiato alla matematica, considerata la forma di conoscenza più confacente all’intelletto umano nella sua condizione terrena; avevano compreso senza difficoltà la possibilità e il ruolo delle scienze medie come l’astornomia, l’ottica geometrica (perspectiva), la teoria musicale, materialmente fisiche e formalmente matematiche, come spiega il ben noto testo di Tommaso d’Aquino del commento al De Trinitate di Boezio: [15]

"Ci sono tre categorie di scienze per quanto riguarda gli oggetti della fisica e della matematica:

— Quelle della prima categoria sono puramente fisiche: esse considerano le proprietà delle realtà naturali come tali e sono la fisica, la scienza agraria, ecc.

— Quelle della seconda categoria sono puramente matematiche: esse si occupano delle quantità come tali, come la geometria si occupa dell’estensione e l’aritmetica del numero.

— Quelle della terza categoria sono intermedie, dal momento che applicano i principi della matematica alle realtà naturali, e sono la musica, l’astornomia, ecc. Esse sono più vicine alle matematiche, perchè nella loro considerazione ciò che è fisico gioca il ruolo di materia, mentre ciò che è matematico gioca il ruolo di forma; così la musica non considera i suoni in quanto sono suoni, ma in quanto stanno in una proporzione numerica; similmente le altre scienze di questo tipo. Di conseguenza conducono delle dimostrazioni riguardanti gli oggetti fisici, ma con metodi matematici. E così nulla impedisce loro di trattare della materia sensibile, in quanto sono scienze di tipo fisico; nel contempo sono scienze astratte in quanto matematizzate". [16]

Non solo ma Tommaso considerava la matematica anche la scienza più certa e più esplicativa:

"Si dice che la matematica procede esplicativamente (disciplinabiliter) non perchè essa sia la sola a farlo, ma perchè lo fa in modo speciale. Se imparare è apprendere la scienza da un altro, allora diciamo che procediamo esplicativamente quando il nostro processo di spiegazione è tale da condurre ad una conoscenza certa, che chiamiamo scienza. E questo avviene proprio nelle scienze matematiche. Avendo una collocazione intermedia tra la fisica e la teologia, la matematica ha un grado di certezza maggiore di entrambe. (…)

Per il fatto che la fisica si occupa della materia, il suo modo di consocere è legato a più fattori, cioè alla considerazione della materia in rapporto alla forma, alla disposizione dei materiali e alle loro proprietà, conseguenti la forma nella materia. La conoscenza è sempre più difficoltosa là dove occorre considerare più fattori in gioco. (…)" [17]

E questa considerazione non meraviglia il lettore moderno che sa bene come la matematica proceda nella sua dimostrazione per via formale, senza dover tener conto di altre informazioni relative agli enti sui quali lavora.

"Inoltre il procedimento matematico è più certo di quello teologico, perchè le entità di cui si occupa la teologia, sono più lontane dai sensi, dai quali la nostra conoscenza trae origine, sia relativamente alle sostanze separate alla cui conoscenza le informazioni ricavate dai sensi sono insufficienti, sia relativamente alle proprietà che sono comuni a tutti gli enti, che sono le più universali e quindi sono le più lontane dai particolari che cadono sotto i sensi.

Gli enti matematici invece, come linea, figura, numero, ecc. cadono sotto i sensi, e sono soggetti a rappresentazione. L’intelligenza umana che deve far ricorso alle rappresentazioni (phantasmata), li coglie più facilmente e con maggior grado di certezza delle nozioni maggiormente astratte di essenza di una sostanza, di potenza e atto, ecc." [18]

Questa seconda considerazione lascia invece generalmente disorientato il lettore moderno, specialmente se matematico, abituato a volte inconsapevolmente, a misconoscere l’origine empirica e astrattiva delle nozioni — comprese quelle matematiche anche le più eleaborate delle quali hanno, alla loro origine, nozioni più elementrai, astratte dall’esperienza sensisbile, e richiedono, per essere pensate, una rappresentazione (phantasma) legata ad oggetti materiali conosciuti dai sensi — e portato a concepire gli enti matematici, come platonicamente esistenti in un mondo ideale immateriale e conosciuti mediante intuizione diretta. [19]

Il lettore moderno rimarrà forse sorpreso anche nel riscontrare come uno dei grandi fondatori delle geometrie non euclidee, quale fu Lobacevskij, sostiene invece addirttura che:

"Tutti i principi matematici, che si pensi di derivare dalla sola ragione, indipendentemente dagli oggetti del mondo, rimangono inutili per la matematica e spesso anzi non sono da essa confermati." [20]

Ma pur conoscendo e comprendendo il ruolo delle scienze matematizzate i rappresentanti della scuola aristotelico–tomista non erano per questo arrivati a quel giudizio esplictiamente negativo nei confronti delle discipline non matematizzate che troviamo anzitutto in Ruggero Bacone e nel pensiero posteriore.

Sembra che non sia stata compresa la lezione sull’analogia del vero e che, per questo, venga esclusa la possibilità di giungere ad un certo grado di scientificità per una via diversa da quella matematica. Questa non comprensione dell’analogia, imputabile in buona parte al nominalismo della tarda scolastica, riducendo l’ente all’essere in senso univoco, sembra aver favorito anche la riduzione del modello di scienza alla scienza certa per eccellenza, quale è la matematica e alle sue applicazioni quali sono le scienze medie matematizzate. La maggior attenzione rivolta agli aspetti che con maggiore certezza possono essere conosciuti, ha condotto ad un crescente atteggiamento agnostico prima e scettico poi, nei confronti di quegli aspetti della realtà che possono essere conosciuti con minore grado di certezza.

Attraverso Scoto l’ente è divenuto fondamentalmente univoco in ciò che di esso si può conoscere con certezza, e ciò che ancora vi fosse di analogo nell’ente sarebbe inconoscibile e quindi viene trattato, di fatto, come se non esistesse. [21] Con Occam il problema si sposta dal piano dell’ente a quello del concetto e del nome, cioè dal piano della metafisica a quello della logica, disciplina certamente più dominabile della metafisica. [22]

"Per Occam il sistema dei concetti si svolge, diremmo, in piena autonomia dalla realtà; sebbene il concetto non abbia perso del tutto i contatti con la realtà, in quanto segno naturale delle cose, tuttavia non si può più affermare propriamente che la riveli: la significa infatti, ma non la esprime nella sua intimità metafisica.

La corrispondenza fra l’ essere e il pensiero è tutta affidata a quel rapporto naturale che si stabilisce fra il segno e la cosa significata: il realismo classico è ridotto, come si vede, a un filo tenuissimo, che si spezzerà del tutto agl iinizi del pensiero moderno. Dalla posizione occamistica al soggettivismo moderno non c’è che un passo brevissimo". [23]

Travisata l’analogia si riduce di fatto la partecipazione dell’ente al solo legame tra segno e significato. Si viene ad aprire così una crescente distanza tra la realtà in sè e la realtà pensata: la logica stessa da strumento ordinato alla conoscenza della realtà tende a chiudersi in se stessa.

Di conseguenza ciò che non può essere conosciuto con totale certezza è stato collocato, di fatto, in secondo piano, fino a perdere definitivamente di importanza. La partenza da ciò che è noto quoad nos non è più stata utilizzata per ricavarne, per analogia, qualche conoscenza di ciò che è noto quoad se, e meno noto per noi, ma è stata utilizzata per fermarsi a considerare ciò che è più immediato per noi. Ha acquistato, così sempre più rilievo l’aspettosoggettivo del conoscere su quello oggettivo, gradualmente sostituito con ciò che viene oggettivato dal soggetto conoscente. Inoltre l’accento viene posto sull’individuale, sul singolare che vengono considerati l’unico dato reale,mentre l’universale è ridotto a puro ente di ragione, a puro nome. Questo modo di guardare la realtà prepara la strada al moderno empirismo inglese da una parte, e all’idealismo dall’altra.

Mentre la linea di pensiero aristotelico–tomista non esclude una scienza come la fisica–matematica, anche se non la esalta in modo particolare, la linea platonico–galileiana si è trovata, di fatto, ad escludere ogni altra forma di scienza che non fosse quella empirico–matematica e questa autolimitazione costituisce oggi un impedimento di principio allo sviluppo di una scienza dell’uomo che possa considerarsi adeguata al suo oggetto. [24]

 

2. Alcuni problemi dell’epistemologia contemporanea

a. Rapporto scienza–metafisica

Gli epistemologi contemporanei, sviluppando una dettaglaita critica del neopositivismo, riconoscono che la scienza nel suo fondarsi e nel suo svilupparsi è inscindibilmente legata ad un elemento filosofico o metafisico, pur dando a questo termine un significato molto generico e indefinito. Di fronte a questo contributo metafisico indispensabile per garantire i fondamenti della scienza e l’interpretazione delle teorie si danno fondamentalmente due atteggiamenti:

— il primo preoccupato del problema della demarcazione (si pensi ad autori come Popper o Bachelard) cerca di identificare un criterio per distinguere l’elemento scientifico da quello metafisico che è ritenuto un ostacolo al progresso della scienza;

— il secondo ritiene non necessaria o addirittura dannosa tale distinzione (Koyré, Kuhn, Lakatos, Feyerabend) in quanto l’elemento metafisico è un’impalcatura necessaria alla costruzione dell’edificio scientifico.

Va sottolineato poi che ciò che viene posto sempre in evidenza, da questi autori, è l’elemento di discontinuità fra le conscezioni filosofiche che accompagnano le differenti teorie e i differenti modi di progettare e interpretare gli esperimenti (linguaggi osservativi). Tuttavia bisognerebbe, per correttezza, non limitarsi a mettere in evidenza gli elementi di discontinuità, ma cercare di identificare anche gli elementi di continuità presenti nel pensiero scientifico, non solo nell’ambito della scienza normale (Kuhn), ma anche nel passaggio da un paradigma ad un altro, i quali vengono invece sottovalutati o addirittura negati. Il fatto che vi siano mutamenti di concezione e di interpretazione, anche rilevanti, non autorizza ad escludere, per principio, che vi siano elementi comuni. È questa metafisica comune che viene esclusa per principio, ma tale principio può anche non essere adottato. D’altra parte così come gli epistemologi contemporanei tendono a escludere una metafisica comune, gli storici della logica possono essere portati, seguendo la stessa linea di comportamento, ad escludere l’unità della logca. [25] .

Anche nei confronti della metafisica non si può escludere a priori che vi sia un’unità fondamentale.

 

b. Realismo e strumentalismo

Non è compito della filosofia delle scienze dare una risposta al problema della critica della conoscenza, se si possa fondare il realismo gnoseologico o se bisogna rassegnarsi ad una qualche forma di agnosticismo o addirittura di scetticismo; quello che è comunque interessante rilevare è come, sia l’analisi storica (Koyré), sia l’analisi metodologica (Popper, Feyerabend), tendano a constatare che un’interpretazione in senso realista delle teorie scientifiche è da riconoscere come quella più utile anche al progredire delle scienza, in quanto più ricca di contenuto empirico e quindi più falsificabile.

Certamente questo non significa che tutte le teorie scientifiche siano interpretabili in senso realista, perchè non tutte le teorie sono state costruite essendo guidati da una visione realista della scienza. La meccanica quantistica, nell’attuale formulazione, (come già fu l’astronomia tolemaica)  per esempio, non si accorda facilmente con una visione realista e richiede di essere in qualche modo completata (Einstein) o rifondata a questo scopo o ritrovata come conseguenza di una meccanica più generale, come ad esempio la meccanica classica non lineare. Essa si presenta, nella forma attuale, piuttosto come uno strumento di calcolo (Bohr), così come l’astronomia tolemaica era considerata nel medio evo solo come uno strumento matematico per il calcolo della posizione dei pianeti, capace di salvare i fenomeni e non  una spiegazione fisica che descrivesse la dinamica in base alla quale i pianeti effettivamente si muovono. [26] Il problema di riconsocere un contenuto di verità,  ovvero la qualifica di spiegazione fisica ad una teoria matematica applicata alla natura piuttosto che ad un’altra, che pur salva i fenomeni sembra in un certo senso eccedere le forze della fisica–matematica e chiedere l’intervento di una disciplina non matematizzata, quale classicamente era la filosofia della natura, la quale considerando gli aspetti entitativi dell’oggetto permetta di dare fondamento e collocazione anche allo schema quantitativo–relazionale della descrizione galileiana dell’oggetto stesso. In questo senso alcune teorie fisico–matematiche si presentano come puri strumenti di calcolo, funzionanti come strumenti, ma inverosimili dal punto di vista metafisico, mentre altre appaiono avere un maggior contenuto di verità, cioè, oltre ad essere funzionanti dal punto di vista del calcolo dei fenomeni risultano essere aderenti ad una descrizione ontologica della natura, o come si diceva anticamente esse non sono puramente matematiche, ma sono genuinamente fisiche.

 

c. Matematizzazione e univocità del linguaggio

È anche il caso di osservare come, se si escludono autori come Bachelard e Koyré, che riconoscono esplicitamente il ruolo della matematica nella scienza galileiana, altri autori non sembrano richiedere espressamente alla scienza la necessità della matematizzazione: Popper, infatti, insiste particolarmente sulla condizione della falsificabilità di una teoria per poter essere considerata sicentifica (non meta–fisica), Kuhn insiste sul ruolo del paradigma, Feyerabend dichiara che ogni ideologia va bene come scienza. Tutto questo sembra concedere ad ogni disciplina dimostrativa, dotata di un contenuto empirico controllabile almeno in alcune conseguenze delle sue ipotesi (controllo indiretto), la possibilità di essere qualificata come scienza. Tuttavia, l’insistenza sul carattere non normativo dell’epistemologia, lascia intendere che l’indagine svolta dagli autori si riferisce alla scienza come si è di fatto sviluppata, [27] cioè alla scienza galileiana, il carattere matematico della quale è fuori discussione. Il privilegio della matematica è legato simultanemante al carattere dimostrativo dei suoi procedimenti e alla univocitàdelle nozioni di cui si serve, grazie alla quale i contenuti empirici possono essere formulati con precisione assoluta, rendendo così più significative le procedure di controllo.

Tuttavia, in linea di principio, neppure l’epistemologia di questi autori esclude, di per sè, una scienza non matematizzata. E questo perchè

"il dedurre logico–formale è molto più ampio del calcolare matematico. L’importanza di queste osservazioni risiede nel fatto che esse ci mostrano come, indubbiamente, utilizzando misura e quantità, equazioni e calcolo, si sta nel rigore, ma come nello stesso tempo, non sia obbligatorio passare per questa strada al fine di restare nell’ambito del rigore". [28]

Non solo ma, di per sè, non viene esclusa neppure una scienza che impieghi nozioni analoghe, purchè siano soddisfatte due condizioni:

• sia possibile formulare una teoria formalmente rigorosa dell’analogia;

• le teorie di questa scienza possano essere controllate attraverso le loro conseguenze in un ambito di esperienza che la teoria stessa è in grado di definire e alla quale offre gli strumenti per accedere.

 

3. Prospettive per una ricerca

Dal confronto fra la concezione glalileiana, o moderna della scienza, che esclude le forme di scientificità ad essa non omogenee, e quella aristotelico–tomista che comprende invece in sè anche la moderna forma di scientificità come una della possibili rationes scientificae, si può comprendere come la parola chiave, di cui occorre studiare la storia, per interpretare l’evoluzione del pensiero che ha portato dalla razionalità aristotelico–tomista a quella moderna, sia la parola analogia, prima fraintesa dal nominalismo e poi successivamente soppressa per far posto alla parola moderna dialettica. [29] Eppure sembra ormai chiaro che l’impostazione univocista delle scienze matematizzate non permette una dilatazione della ratio scientifica moderna alla comprensione delle esperienze più profonde dell’uomo e neppure consente una fondazione adeguata delle stesse scienze della natura e delle matematiche. Una ripresa di indagine, dal punto di vista logico e linguistico, sulla teoria dell’analogia, in termini che possano essere considerati anche modernamente scientifici sembrerebbe quanto mai auspicabile.

Sembra del tutto ovvio, almeno a chi è abituato a lavorare con un’impostazione aristotelico–tomista, che senza analogia non si fa metafisica (e tantomeno teologia). D’altra parte la dottrina dell’analogia, se non trova una formulazione rigorosa non sembra afferrabile all’interno di un metodo scientifico e può sembrare più un compromesso linguistico che copre delle possibili contraddizioni, che non uno strumento adatto a condurre delle dimostrazioni. Occorre, dunque, formulare una teoria assiomatica dell’analogia. Non è questo il luogo per affrontare sistematicamente questo problema, [30] quanto per porre alcune questioni e aprire piste in tal senso, sfruttando sia le informazioni che sul termine analogia ci vengono indirettamente dalle scienze moderne, sia le ricerche nel campo della logica matematica concernenti la teoria di tipi, l’isomorfismo e la struttura del linguaggio.

 

Analogia e scienza galileiana

Nell’ambito della scienza galileiana non compare mai “ufficialmente” la parola analogia, in quanto il linguaggio matematico del quale tali scienze si servono non prevede la definizione e l’uso di tale nozione in senso tecnico. Tuttavia l’analogia trova una sua applicazione di fatto, anche se tacita, sia con una funzione euristica, cioè come un aiuto nella costruzione di nuove teorie scientifiche, sia con una funzione ermeneutica, cioè in vista dell’interpretazione delle teorie. Dato l’uso informale che se ne fa essa non necessita, in questo senso, di una definizione rigorosa e ci si accontenta di parlare di analogie fra fenomeni e teorie nel senso in cui si può parlare di analogie nel linguaggio comune. Si tratta di un termine ereditato da una tradizione antica e che ormai sta a significare che sussiste una qualche somiglianza tra due fenomeni o due teorie, che può essere precisata.

 

Funzione euristica dell’analogia

Questa somiglianza sta alla base della possibilità di costruire modelli per la descrizione di certi dati dell’esperienza. In particolare l’analogia, così intesa, può suggerire modelli che potremmo chiamare materiali, cioè riguardanti la struttura fisica dei “corpi” da descrivere, o modelli formali, cioè riguardanti le leggi matematiche atte a descrivere e spiegare determinati fenomeni.

a) Analogie materiali

Servono a descrivere le proprietà di un fenomeno di cui non si conosce la struttura costitutiva (per esempio gli atomi) ipotizzando una somiglianza con oggetti conosciuti (ad esempio delle sferette rigide ed elastiche), per i quali si conoscono le leggi fisiche che ne regolano il comportamento. Si dice in questo caso che si è proposto un modello per il fenomeno da descrivere (nell’esempio il modello delle sfere rigide per descrivere il comportamento degli atomi in un gas).

"Nelle analogie del primo tipo, un sistema di elementi che possiedono certe proprietà già note, di cui si suppone siano relazionate in modo conosciuto come viene enunciato da un gruppo di leggi del sistema, vien preso a modello della costruzione della teoria di un secondo sistema. Quest’ultimo può differire da quello iniziale soltanto per il fatto di contenere un insieme più vasto di elementi, aventi tutti proprietà simili a quelle del modello. (…)

Le varie teorie atomistiche della materia illustrano l’utilizzazione di questo tipo di analogia. Le ipotesi fondamentali della teoria cinetica dei gas, per esempio, sono costituite sul modello delle leggi consociute per i moti di sfere elastiche macroscopiche, come le palle da biliardo". [31]

La relazione di somiglianza tra il modello e il fenomeno è supposta a livello della struttura degli elementi costitutivi, in modo da potersi attendere una somiglianza anche nel comportamento, e potere utilizzare, entro certi limiti, le stesse leggi matematiche per il fenomeno da descrivere e per il modello.

b) Analogie formali

Nel caso di analogie formali non si ricerca un modello a livello della struttura fisica dei costituenti un certo “oggetto”, ma si punta direttamente alle equazioni matematiche che sembrano adatte a descrivere adeguatamente certe leggi fenomenologiche, senza fare ipotesi sulla struttura materiale che da tali leggi deve essere governata.

"Nel secondo tipo di analogia, cioè nelle analogie formali, il sistema che serve da modello per la costruzione di una teoria è costituito da qualche struttura familiare di relazioni astratte, piuttosto che (…) da un insieme più o meno visualizzabile di elementi che siano tra loro in relazione già nota". [32]

Questo modo di procedere è meno naturale per chi non è abituato a rappresentarsi le cose in termini matematici, mentre è del tutto ovvio per il fisico–matematico che tende, a sostituire nella sua mente, l’oggetto fisico con le equazioni matematiche che ne governano il comportamento.

In questo caso la somiglianza si colloca a livello delle equazioni matematiche che sono le stesse per due fenomeni di natura completamente diversa, dei quali l’uno è più noto, perchè è già stato studiato a lungo, e l’altro è meno noto e viene spiegato prendendo le equazioni che governano il primo come modello per il secondo. In certi casi l’identità formale delle equazioni, pur con un’interpretazione fisica completamente differente dei simboli matematici conduce alla costruzione di nuove teorie che difficilmente sarebbero state trovate senza l’aiuto di una tale analogia formale. L’esempio più clamoroso è la meccanica ondulatoria, l’equazione di Schrödinger che governa la quale, è stata ottenuta attraverso l’analogia fra le equazioni dell’ottica geometrica e quelle della meccanica analitica classica. [33]

È importante sottolieneare come, nella scienza galileiana, l’analogia si presenta come un somiglianza di struttura, o in senso materiale o in senso formale, dove la parte materiale è giocata dall’oggetto fisico e la parte formale dalla legge matematica che ne governa il comportamento.

 

Funzione ermeneutica dell’analogia

L’uso dell’analogia nella fisica ha anche un risvolto ermeneutico, cioè aiuta ad interpretare e a spiegare il fenomeno per il quale si è adottato un certo modello, in quanto svolge la funzione di ricondurre un fenomeno meno noto ad uno più noto.

"Una teoria che sia articolata alla luce di un modello familiare assomiglia sotto importanti apsetti alle leggi o alle teorie che, per ipotesi, valgono per il modello stesso; (…)

In effetti, per alcuni scienziati l’esistenza di una simile analogia è diventata un requisito esplicito e indispensabile perchè una spiegazione teorica di leggi sperimentali sia soddisfacentie. Reciprocamente, anche se una nuova teoria orgnaizza sistematicamente un gran numero di fatti sperimentali, talvolta la mancanza di una marcata analogia tra la teoria e qualche modello familiare vien data come ragione per l’affermazione che la nuova teoria non offre una spiegazione “realmente soddisfacente” di quei fatti. (…)

Più recentemente, un noto fisico [P.W. Bridgman] ha sostenuto che una teoria, di cui non si possono fornire modelli visualizzabili, vale quanto una per cui siano disponibili tali modelli, purchè entrambe ci permettano ugualmente bene di fronteggiare problemi sperimentali; egli ha inoltre messo in luce come da quest’ultimo punto di vista il formalismo matematico della corrente teoria quantistica, per il quale non si conosce alcun modello soddisfacente di questo tipo, è insolitamente produttivo. Tuttavia egli prendeva pure atto dello sgradevole senso di vuoto condiviso da molti fisici di fronte al fatto che la teoria quantistica non offre “spiegazione” dei fatti sperimentali — sensazione che egli attribuisce alle circostanze che non possiamo costruire per questa teoria alcun modello fisico in cui “il gioco reciproco degli elementi ci [sia] già così familiare da poterlo accettare senza che esiga una spiegazione”". [34]

 

Analogia e matematiche

Se nell’ambito della fisica l’analogia non entra in gioco se non come suggerimento metodologico esterno per la costruzione e l’interpretazione delle teorie, l’analogia formale gioca un ruolo molto simile nell’invenzione di nuove strutture matematiche basate su modelli più semplici dei quali si ricerca una generalizzazione che conservi alcune proprietà formali, pur non entrando come già nella fisica a far parte direttamente di alcuna definizione di enti matematici.

"La matematica impiega spesso tali modelli formali per sviluppare qualche sua nuova branca. Un semplice esempio è offerto dal modo in cui sono enunciate in algebra le regole per eseguire operazioni con esponenti frazionari e negativi, rogole specificate in modo che le leggi per operare con tali esponenti siano formalmente le stesse che per esponenti interi positivi". [35]

Quello che è importante, allora, tenere presente è il fatto che in fisica come in matematica l’analogia, così come la si intende nel linguaggio comune, non entra in gioco direttamente come elemento interno al sistema della scienza, ma può giocare un ruolo in vista della costruzione e dell’interpretazione della scienza.

È vero che la matematica conosce, nella sua struttura interna, delle corrispondenze biunivoche tra elementi di insiemi distinti (isomorfismi, omemomorfismi, diffeomorfismi, ecc.), ma non si tratta di analogie, quanto di identità (o equivalenze) di struttura. Per cui dal punto di vista di certe proprietà di struttura tali insiemi sono indistinguibili l’uno dall’altro per la teoria e si dice che uno di tali insiemi rappresenta un modello per la struttura considerata.

 

Logica e analogia

Ma trattando di logica il discorso sull’analogia si presenta invece come interno alla logica stessa; al più può essere accantonato, o escluso, per timore di antinomie, come dopo Russell, hanno fatto tendenzialmente i logici matematici moderni. Qui ci limitiamo a tracciare sommariamente l’insorgere del discorso sull’analogia seguendo il tracciato proposto da J.M. Bochenski, che ci aiuta a stabilire un raccordo fra la logica di Aristotele e di san Tommaso e i sistemi formali moderni.

 

Analogia di proporzione

Egli comincia col farci osservare come, in Aristotele, il problema dell’analogia nasce nel momento in cui egli deve prendere in considerazione il

"problema della classe universale. Egli lo risolse con una brillante intuizione, sebbene, come ora sappiamo con l’aiuto di una dimostrazione imperfetta. Il passo relativo si trova nel terzo libro della Metafisica:

«Non è possibile che l’essere o l’unità siano un singolo genere di oggetti. È infatti necessario che in ogni genere le differenze abbiano ognuna essere e unità; è però impossibile predicare le specie del genere, o il genere senza le sue specie, delle proprie differenze. Se quindi l’essere o l’unità fossero un genere, nessuna differenza avrebbe essere o unità» (B3, 998b 22-27).

La linea di pensiero espressa da Aristotele in questa formula molto condensata è la seguente:

1) Per ogni A: se A è un genere, allora c’è (almeno) un B che è la differenza specifica di A;

2) per ogni A e B: se B è la differenza specifica di A, allora non: B è A. Supponiamo ora che:

3) c’è un genere onnicomprenisvo V; di esso sarebbe vero che:

4) per ogni B: B è un V.

Poichè V è un genere, esso deve avere, per 1), una differenza; chiamiamola D. Di questa D, da una parte, per 4), sarebbe vero che D è V, dall’altra, per 2), che D non è V. Scaturisce così una contraddizione, e quindi almeno una delle premesse deve essere falsa. Poichè Aristotele ritiene che 1) e 2) siano vere, deve perciò respingere la supposizione che ci sia un genere onnicomprensivo, 3): non c’è alcun summum genus. Abbiamo qui il fondamento della dottrina scolastica dell’analogia e il primo germe di una teoria dei tipi.

La dimostrazione è imperfetta: infatti, “D è V” non è falsa ma priva di senso. Senza dubbio, però, ci troviamo dinanzi a un’idea che merita di essere chiamata brillante intuizione". [36]

In termini insiemistici diremmo che il problema dell’analogia di proporzione insorge là dove entrano in gioco insiemi che includono se stessi, come la classe universale o insieme di tutti gli insiemi; e di conseguenza là dove si utilizzano, nel linguaggio, dei nomi che denotano (attribuzione) classi così fatte: ente identificando la classe universale, identifica una classe autoinclusiva. Tali classi sono state escluse dalla teoria degli insiemi di Russell, in quanto alcune di esse sono contraddittorie.

È possbile eliminare questo tipo di contraddizioni facendo ricorso ad una teoria dei tipi, cioè classificando gli insiemi secondo un ordine: gli elementi semplici che non sono insiemi, ma appartengono ad insiemi, gli insiemi di ordine uno che sono insiemi di elementi semplici, gli insiemi di ordine due che sono insiemi i cui elementi sono insiemi di ordine uno, e così via. In questo senso un nome si può ritenere analogo quando può designare una proprietà comune alle classi di tipo diverso che si ottengono partendo dagli stessi elementi semplici.

La classificazione dei tipi per le classi ha naturalmente una corrispondente ed equivalente classificazione per le proposizioni, in quanto una proposizione definisce sempre (intensivamente) il corrispondente insieme di quei termini per i quali la proposzione è vera. Così si caratterizzano come proposizioni elementari o del primo ordine quelle i cui termini non sono a loro volta delle proposizioni, come proposizioni del secondo ordine le proposizioni i cui termini sono proposizioni del primo ordine, e così via.

 

Analogia di proporzionalità

Seguendo l’idea di Bochenski possiamo giungere a dare una formulazione dell’analogia di proporzionalità, così come san Tommaso la presenta, in termini di logica simbolica, ricorrendo all’isomorfismo fra classi di tipo differente.

"Nello stato attuale della ricerca è sfortunatamente impossibile presentare la teoria scolastica del significato con una qualche speranza di rendere giustizia anche soltanto ai suoi elementi essenziali. Tuttavia, tratteremo un’ulteriore importante questione in questo campo, cioè, la teoria dell’analogia. Essa ha un’importanza diretta per la logica formale ed è stata studiata abbastanza bene. Un unico testo di Tommaso d’Aquino sarà sufficiente:

«Nulla può essere predicato univocamente di Dio e delle creature, perchè in ogni predicazione univoca il senso [ratio] del nome è comune a entrambe le cose di cui il nome è predicato univocamente… e tuttavia non si può dire che ciò che è predicato di Dio e delle creature è predicato in modo puramente equivoco… Si deve perciò dire che il nome della saggezza è predicato della saggezza di Dio e delle nostre nè in modo puramente univoco nè in modo puramente equivoco, ma secondo l’analogia, il che signfiica propriamente: secondo una proporzione. Ma la conformità [convenientia] secondo una proposizione può essere duplice, e quindi bisogna tener conto di una duplice comunanza di analogia. C’è infatti una conformità tra le cose stesse che stanno tra di loro in una certa proporzione in quanto hanno una determianta distanza, o qualche altra relazione [habitudinem] l’una all’altra, ad esempio [il numero] 2 con l’unità, in quanto 2 ne è il doppio. Talvolta, però, teniamo anche conto di una conformità fra due cose fra cui non c’è una mutua proporzione, ma piuttosto c’è una somiglianza fra due proporzioni; ad esempio, 6 è conforme a 4 perchè, come 6 è il doppio di 3, così 4 è il doppio di 2. La prima conformità è quindi conformità di proporzione, mentre la seconda lo è di proporzionalità. È quindi secondo il primo tipo di conformità che troviamo che qualche cosa è predicata analogamente di due cose l’una delle quali ha una relazione con l’altra, come l’essere è predicato della sostanza e dell’accidente a causa della relazione che la sostanza e l’accidente hanno [l’una con l’ altro], e la salute è peredicata dell’orina e degli animali, perchè l’orina ha qualche relazione con la salute degli animali. Talvolta, invece, la predicazione è fatta secondo il secondo tipo di conformità, come ad esempio quando il nome di vista è predicato sia della vista corporea sia dell’intelletto, perchè come la vista è nell’occhio, così l’intelletto è nella mente» (De Veritate, q.2, art.2 c).

Questo è forse il più chiaro dei molti testi in cui Tommaso d’Aquino parla dell’analogia. Esso è stato fin troppo spesso interpretato male, ma merita una discussione abbastanza accurata da parte dello storico della logica per la sua grande importanza storica e sistematica. Attiriamo perciò l’attenzione sui seguenti punti:

Questo testo tratta esplicitamente di un problema semantico — Tommaso parla di nomi — ed è degno di nota il fatto che egli stesso, come il suo miglior commentatore Caetano, consideri quasi sempre l’analogia dei “nomi”. Naturalmente non ha in mente semplici voci, ma parole dotate di significato, in accordo con l’uso scolastico illustrato in precedenza.

Ora, il nostro testo parla di tre classi di nomi: univoci, equivoci e analoghi. Gli ultimi sono a mezza via fra i primi due. La classe dei nomi analoghi si divide in due sottoclassi: quelli analoghi secondo una proporzione, e quelli analoghi secondo una proporzionalità. Entrambe queste divisioni hanno la loro origine in Aristotele, ma le frettolose indicazioni dell’Etica Nocomachea sono qui sviluppate in una dottrina logica sistematica.

Mentre la dottrina tomistica della prima classe di nomi è qui interessante soltanto come tentativo di formalizzare le regole del loro uso, la teoria della sconda classe, cioè dei nomi analoghi secondo proporzionalità, non è niente di meno che una prima formulazione della nozione di isomorfia. Che le cose stiano così lo si può vedere nel modo seguente:

Notiamo innanzitutto che secondo il testo un nome analogo del secondo tipo fa sempre riferimento a una relazione o a relata definiti da una relazione. È certo che  in una tale analogia qualche cosa di assoluto è anche implicato da ciascuno dei soggetti, ma esso è diverso nei due casi, e sotto questo aspetto il nome è equivoco. La comunanza di riferimento sussiste soltanto rispetto a certe relazioni.

Non si tratta però di un’unica relazione, bensì di due relazioni simili. Questo punto è esplicito nel testo, soltanto che l’esempio (6:3 = 4:2) è fuorviante perchè in questo caso le due relazioni sono identiche. Che Tommaso non pensasse a ciò è dimostrato dalle applicazioni, prima nel dominio delle creature (vista : occhio – intelletto : mente), poi in Dio (essere divino : Dio – essere creato : creatura). L’idea direttrice è quindi quella di una relazione di similarità fra due relazioni.

Questa relazione fra relazioni è tale da permettere l’inferenza da ciò che sappiamo dell’una a qualche cosa riguardante l’altra, sebbene nello stesso tempo si abbia l’affermazione: “non possiamo sapere che cosa è Dio”. L’apparente contraddizione scompare quando ci si rende conto che si ha a che fare con l’isomorfia. essa permette infatti di trasferire qualche cosa da una relazione a un’altra senza che si venga a sapere alcunchè dei relata.

L’uso di un esempio matematico è degno di nota, tanto più che è tratto dall unica funzione algebrica allora conosciuta. Ciò non deve essere spiegato soltanto con l’origine matematica della dottrina dell’analogia in Aristotele, ma forse anche con una brillante intuizione da parte dell’Aquinate che suppose oscuramente di star stabilendo una tesi sulla struttura. In ogni caso, il testo è della massima importanza storica, in quanto è la prima indicazione di uno studio della struttura, che doveva diventare una delle caratteristiche principali della scienza moderna". [37]

Secondo questo schema abbiamo due classi B tra gli elementi di ciascuna delle quali si può stabilire una relazione:  tra gli elementi di Q tra gli elementi di B. Inoltre tra gli elementi di A e gli elementi di B si può stabilire una corrispondenza biunivoca S in modo tale che se tra gli elementi x, y di sussiste la relazione P, tra i corrispondenti elementi Sx, Sy di sussista la relazione Q. Allora la relazione S prende il nome di isomorfismo tra le classi B. Questa corrispondenza tra due strutture è ben nota anche in matematica, essendo due classi dello stesso tipo: in questo caso si interpretano come due rappresentazioni della stessa relazione, l’una tra gli elementi della classe e l’altra tra gli elementi della classe B. In questo caso non c’è analogia fra le due relazioni Q, ma identità. È il caso della proporzione tra numeri: la relazione di rapporto tra numeri“:” è la stessa.

Quando invece le due classi sono di tipo diverso, allora le due relazioni non sono interpretabili come due rappresentazioni di un’unica relazione, ma come due relazioni analoghe. [38]

Non è il caso di addentrarci oltre nell’analisi di questo tentativo di confronto fra un’impostazione antica come quella di Tommaso d’Aquino e le ricerche della più recente logica simbolica; rimane il fatto che questa area, in buona parte ancora inesplorata, sembra poter portare contributi notevoli sia nel senso di una maggior comprensione della profondità del pensiero medioevale, sia nel senso di offrire uno statuto di scientificità a discipline alle quali, nei tempi moderni, è stato sistematicamente negato.

 

 

[1] J. Maritain, Distinguere per unire. I gradi del sapere, Morcelliana, pp.44-45.

[2] J. Maritain, ibidem, p.65.

[3] ibidem.

[4] Se le scienze medie di tipo fisico–matematico erano note fin dall’ antichità, la novità della sciezna galileiana è consistita, principalmente, nell’ estensione del campo di applicazione di questo tipo di scienza all’ intero universo corporeo, dall’ astronomia alla fisica del mondo sublunare: «Mentre la forma di conoscenza del tipo scientia media non era nuova, l’ applicazione dei principi della matematica all’ intero dominio della natura fu una novità apportata dal XVII secolo. La possibilità di una simile applicazione fu intravista da uomini come Roberto Grossatesta e Ruggero Bacone già nel XII secolo. Gli soforzi iniziali furono compiuti con la scoperta della dinamica e della cinematica del XIV secolo. E l’ unificazione della fisica celeste con quella terrestre fu realizzata nel XVII secolo con il principio d’ inerzia. La niova scienza fisica era una meccanica unificata in cui i principi matematici erano applicati all’ intero dominio della realtà fisica. Cioè a dire, la scientia media conosciuta dagli antichi come “astronomoia” fu allora estesa fino ad includere anche la meccanica terrestre. Noi abbiamo chiamato poi questa forma estesa di conoscenza della natura “fisica moderna”, la struttura e il metodo della quale è fisico–matematico, cioè è la sicentia media nel senso in cui il termine è usato da Tomamso», J.A. Wesheipl, The validity and value of natural philosophy, in Atti del Congresso Internazionale “Tommaso d’ Aquino” nel suo VII centenario”, Ed. Domenicane Italiane, vol.IX, p.265.

[5] T. Tyn, Metafisica della sostanza. Partecipazione e analog)ia entis, Edizioni Studio Domenicano, p.133.

[6] Per intenderci indicherò con questo appellativo il metodo della scienza moderna, fondata sul modello epistemologico della fisica–matematica.

[7] Alcuni studiosi «hanno messo in rilievo la funzione dell’ osservazione e dell’ esperienza nella nuova scienza della natura. È verissimo, naturalmente che esse sono le caratteristiche più notevoli della scienza moderna. Senza dubbio negli scritti di Galileo si trovano innumerevoli richiami all’ osservazione e all’ esperienza, e l’ ironia amara contro coloro che non credono ai prorpi occhi perchè hanno visto cose contrarie all’ insegnamento delle autorità o, peggio, che (come il Cremonini) non volevano guardare nel telescopio di Galileo per timore di vedere qualcosa in contraddizione con le loro teorie e credenze  tradizionali. È evidente che Galileo dall’ avere costruito un telescopio, e averci guardato dentro, dall’ avere accuratamente osservato la luna e i pianeti, scoperto i satelliti di Giove, fu spinto a dare un colpo violento all’ astornomia e cosmologia del suo tempo. Non si deve dimenticare inoltre che l’ osservazione e l’ esperienza, in quanto esperienza del senso comune, in senso bruto, non ebbe una funzione importante o, se l’ ebbe, questa fu negativa, fu cioè di ostacolo nella costruzione della scienza moderna. La fisica di Aristotele, e anche più quella dei Nominalisti parigini, di Buridano e di Nicola Orasmo, come è stato osservato da Tannery e Duhem, era molto più prossima all’ esperienza del senso comune che quella di Galileo e Cartesio. Ebbe una funzione positiva importante — però solo più tardi — non l’ esperienza, ma l’ esperimento. L’ esperimento è il metodico interrogare la nautra, che presuppone e richiede un linguaggio in cui formulare le domande e un vocabolario che ci permetta di leggere e interpretare le risposte. Secondo Galileo, com’ è noto, dobbiamo parlare alla Natura e ricevere le risposte in curve, cerchi, triangoli, in linguaggio matematico o più precisamente geometrico — non nel linguaggio del senso comune o in quello dei simboli», A. Koyré, Introduzione a Platone, Vallecchi, pp.140-141.

[8] A. Koyré, Études d’ Histoire de la pensée scientifique, Gallimard, p.83.

[9] Koyré si riferisce qui al Dialogo sui mlassimi sistemi e ai Discorsi e dimostraizoni sopra due nuove scienze di Galileo.

[10] A. Koyré, Introduzione a Platone,  op. cit. pp.160, 163, 167.

[11] Un ampio quadro della storia del pensiero e delle scuole del XIII secolo è offerto da E. Gilson nell’ VIII capitolo de La filosofia  nel Modioevo, La nuova Italia.

[12] AA.VV. Storia della chiesa, diretta da H. Jedin, Jaca Book, vol.V/1, p.367.

[13] Si può vedere in proposito R. Mathes, L’ iniziatore di una scienza universale, in Sant’ Alberto Magno, l’ uomo e il pensatore, Massimo, pp.41-58.

[14] R. Bacone, Opus Maius, traduzione italiana in A.A. V.V. Grande antologia  filosofica, ed. Marzorati, vol.IV, pp.1299-1300. Le rivalità di scuola dovettero pesare non poco nel modo con cui i rappresentanti delle due tendenze si considerarono; basti pensare alla poca stima che Ruggero Bacone ebbere per Alberto e per Tommaso, espressa senza mezzi termini dalle parole seguenti: Alberto «mai studiò filosofia, nè la sentì spiegare nelle scuole, nè si iscrisse in una scuola superiore prima di essere teologo, e nemmeno potè essere istruito nel suo Ordine, perchè proprio lui è il primo maestro di filosofia fra essi, e proprio lui insegnò agli altri: perciò quello che sa l’ ha appreso da sè. (…) Poichè non aveva fondamenti, non essendosi istruito nè esercitato nell’ ascoltare le lezioni, nell’ impararle e nel disputare, è inevitabile che egli non consoca le scienze divenute in voga. (…) Inoltre non conoscendo egli l’ ottica e in verità egli non ne sa nulla, come non ne sanno nulla molti dei soliti studenti, è impossibile che conosca qualche cosa di veramente interessante nel campo dele scienze naturali: allo stesso modo non può gloriarsi (e queste cose sono più grandi delle altre) di un trattato, come quello di cui io parlai, sulle scienze sperimentali, sull’ alchimia, sulle matematiche. Se non conosce quello che è da meno non può certo conoscere quello che è da più», ibidem, p.1331.

[15] Si veda in proposito anche il commento ai Secondi Analitici, Libro I, Lettura XLI: «Alcune scienze sono puramente matematiche: esse astraggono mediante la ragione dalla materia sensibile, come la geometria e l’ aritmetica; altre sono scienze medie: esse applicano i principi matematici alla materia sensibile, come l’ ottica geometrica applica i principi della geometria al raggio visuale e la musica applica i principi dell’ aritmetica ai suoni sensibili». Come osserva puntualmente J.A. Weisheipl: «Tommaso ammette che vi sono forme di conoscenza matematica che studiano la materia e il moto, quali l’ astronomia, la meccanica, l’ ottica e persino la musicologia. Queste scienze egli le chiama “mediae”, in quanto dipendono dalla matematica pura per i principi di cui si servono e dalle scienze naturali per i dati su cui lavorano. Tommaso, a quanto pare, è l’ unico filosofo medievale che abbia usato l’ espressione scientiae mediae in questo senso.(…) Egli comprese molto bene la natura della matematica applicata, almeno per quanto concerne la sua struttura filosofica», Tommaso d’ Aquino. Vita, pensiero, opere,Jaca Book, p.142.

[16] Commento al  “De Trinitate” di Boezio, Lettura II, questione I, art.3, risposta alla sesta obiezione.

[17] ibidem, questione II, art.1, risposta alla seconda domanda. Si veda anche la lettura citata sopra del commento ai Secondi Analitici.

[18] ibidem.

[19] È noto come Einstein fosse profondamente meravigliato dalla sorprendente possibilità di accordo che susiste tra le toerie matematiche elaborate dalla fisica e i risultati sperimentali: «La cosa più incomprensibile del mondo è che esso sia comprensibile» (citazione da Fisica e realtà, riportata in A. Einseint scienziato e filosofo,  a cura di P. A. Schilpp, Boringhieri, p.233). Si capisce come questa armonia prestabilita, come lui stesso la chiama rifacendosi a Leibniz, lo dovesse stupire essendo guidato da una concezione spinoziana della realtà; stupisce meno in una visione aristotelico–tomista che concepisce nozioni matemartiche come sempre, in qualche modo legate mediante un processo astrtattivo, alla realtà materiale dei corpi. Ma presso i matematici moderni bisogna tornare a Lobacevskij per trovare un metodo di definizione delle grandezze geometriche che parta dal contatto tra i corpi, paragonabile al modo con cui Aristotele definiva lo spazio. Egli inizia il suo trattato con queste considerazioni: «1. Il contatto costituisce l’ attributo caratteristico dei corpi; ad esso i corpi debbono il nome di corpi geometrici, non appena noi teniamo fissa l’ attenzione  su questa proprietà, e non consideriamo invece tutte le altre proprietà, siano esse essenziali o accidentali. (…) In questo modo noi possiamo concepire tutti i corpi della natura come parti di un unico corpo globale, che noi chiamiamo spazio», Nuovi principi della geometria, Boringhieri, p.73.

[20] Testo riportato nell’ introduzione ai Nuovi principi della geometria, op. cit., p.36.

[21] «L’ ente è univoco a tutti, ma ai concetti non semplicemente semplici è univoco quanto alla quiddità, mentre ai concetti semplicemente semplici è univoco in quanto determinabile o denominabile, e non in quanto è predicato di essi quidditativamente, perchè ciò include contraddizione», G. Duns Scoto, Ordinatio I, d.3, traduzione italiana in A.A. V.V. Grande antologia  filosofica, op. cit., vol.IV, p.1374. È utile leggere l’ intero n.2 dedicato all’ univocità dell’ ente.

[22] Si veda anche AA.VV. Storia della chiesa,  op. cit., vol.V/2, pp.65-78.

[23] E. Bettoni, La soclasitica postomistica: Guglielemo di Occam, in AA. VV. Grande antologia  filosofica, op. cit., vol.IV, p.1422.

[24] Ad esempio, osserva ancora Koyré: «È impossibile dare una deduzione matematica della qualità. E sappiamo bene che Galileo, come Cartesio un po’ più tardi e per la stessa ragione, fu costretto a rinunziare alla nozione di qualità, a dichiararla soggettiva, a bandirla dal regno della natura. Il che allo stesso tempo significa che fu costretto a rinunciare alla percezione dei sensi come fonte di conoscenza e a dichiarare che la conoscenza intellettuale e aprioristica è la nostra base e l’ unico mezzo per conoscere l’ essenza della realtà», Introduzione a Platone,  op. cit. pp.162. Ci si riferisce qui, evidentemente a quegli apsetti della qualità che sono irriducibili alla quantità e non alla possibilità di misurare l’ intensità della qualità.

[25] Come osserva a questo proposito Bochenski: «Si potrebbe quindi ricavare l’ impressione che la storia della logica ponga in evidenza un relativismo nelle dottrine logiche, cioè che si sia di fronte alla nascita di logichediverse. Noi non abbiamo però parlato di logiche diverse, bensì di diverse forme di un’ unica logica Questo modo di esprimersi è stato adottato per motivi speculativi, precisamente perchè l’ esistenza di  molti sistemi di logica non fornisce alcuna dimostrazione del fatto che la logica sia relativa. C’ è inoltre una base empirica per parlare di una logica. La storia ci mostra infatti non soltanto l’ emergere di nuovi problemi e leggi, ma anche, e forse è ciò che sorprende più di tutto, il ricorrere persistente dello stesso insieme di problemi logici», La logica formale, vol.I, Dai presocratici a Leibniz, Einaudi, p.28.

[26] A questo proposito san Tommaso rileva come l’ astronomia tolemaica non sia da ritenere necessariamente la vera unica spiegazione dei moti planetari e non esclude che in futuro possa essere trovata una spiegazione diversa da quella degli antichi astronomi: «Le ipotesi alle quali essi sono giunti, non sono necessariamente vere; anche se sembra che, ammesse tali ipotesi, esse siano risolutive, non c’ è bisogno di dire che esse sono vere: perchè può darsi che le osservazioni astronomiche si possono descrivere in un altro modo non ancora afferrato dagli uomini. Comunque Aristotele si serve di queste ipotesi sulle proprietà dei moti come fossero vere», Commento al “De coelo” di Aristotele, Libro I, lettura 17, n.2.

[27] «Dove troviamo di fatto questo schema particolarmente ben applicato e riuscito? Certamente, nel campo delle scienze fisico–matematiche», E. Agazzi, Analogicità dezl concetto di scienza. Il problema del rigore e dell’ oggettività nelle scienze umane, in Epistemologia e scienze umane, Massimo, p.67.

[28] ibidem, p.65.

[29] Si veda a questo proposito l’ ampio studio di P. T. Tyn, Metafisica della sostanza…, op. cit.

[30] Per una trattazione storico–sistematica del problema dell’ analogia si può vedere utilmente l’ opera di p. T. Tyn più volte citata.

[31] E. Nagel, La struttura della scienza. Problemi di logica nella spiegazione scientifica, Feltrinelli, p.118.

[32] ibidem.

[33] cfr. ancora Nagel, op. cit., pp.119-120, nota 5.

[34] ibidem, p.122-123.

[35] ibidem, p.118.

[36] J.M. Bochenski, La logica formale, op. cit., vol.I, p.77.

[37] J.M. Bochenski, La logica formale, op. cit., vol.I, pp.237-238. Per chiarezza terminologica va osservato che nella traduzione è stato impiegato il termine isomorfia, mentre spesso si prefersice in italiano isomorfismo,termine di uso frequente anche in matematica.

[38] Una formulazione tecnica dell’ analogia di proporzionalità in termini di isomorfismo tra relazioni è proposta in J.M. Bochenski, La logica della religione, Ubaldini, Appendice VI, p.122 e sgg.