«“Professore, ma che cosa fa tutto il giorno, chiuso in casa, al computer a “pigiare” quei dannati tasti con tanto accanimento?”, domandai al mio vicino di casa – un professore in pensione che avevo sempre apprezzato per la sua competenza e cordiale umanità. “Scrivo libri per il dopo barbarie”, mi rispose sorridendo con una bonarietà e tristezza che apparivano sul suo volto illuminato da un’ultima cristiana speranza. “Forse potranno essere utili a qualcuno, in cerca di vecchi maestri, dopo che la pseudocultura di questo nostro tempo di inciviltà si sarà completamente dissolta… a qualcuno che avrà voglia di tornare a pensare e a costruire una civitas veramente umana». Se oggi dovessi scrivere un romanzo penso che lo inizierei così.
Già prima della sua elezione al Soglio di Pietro l’allora Card. Ratzinger (poi Benedetto XVI) aveva parlato anticipatamente di una «dittatura del relativismo» (omelia per la Missa pro eligendo Pontifice, 18 aprile 2005) e dopo meno di quindici anni questa dittatura oggi domina interamente il nostro mondo civile e ormai anche quello ecclesiale (se osi dire qualcosa fuori del coro non solo ti guardano male e ti emarginano, ma ti minacciano: dai fastidio, anche per il solo fatto di esistere, e ti rimuovono) e ha creato un clima culturale e sociale irrespirabile.
E allora? Che cosa si fa sotto i regimi per reagire e dire una parola autentica in libertà? Chi è capace di farlo, ad esempio, può scrivere dei romanzi ambientati apparentemente in un passato sufficientemente lontano per non destare sospetti; oppure dei racconti proiettati in un futuro fantascientifico, con l’intento criptato di giudicare il mondo di oggi. Oppure si scrive su qualche blog libero. Il fatto curioso, che proprio oggi dobbiamo constatare con sorpresa (almeno di chi non è addentro alle problematiche scientifiche e conosce solo ciò che sulla scienza dicono i media) che da qualche decennio almeno, anche inconsapevolmente, gli autori di questo romanzo fantascientifico sono proprio loro, gli scienziati! Non tutti, naturalmente, ma quelli che non si lasciano adescare dai deliri di onnipotenza e dagli abbagli delle applicazioni tecnologiche manipolatrici dell’uomo, ma fanno scienza per conoscere.
Non si tratta, dunque, più di fantascienza, ma di scienza vera. Perché, ormai da tempo, per gli scienziati e gli ingegneri – quelli che si occupano di ricerche che vanno oltre la routine – sono arrivati a “mettere in formule”, teoremi e problemi scientifici, delle questioni che, fino a poco tempo fa, sembravano appartenere solo ai filosofi e ai teologi. Sono cosmologi, fisici delle particelle, logici, biologi, informatici e cognitivisti che studiano il rapporto mente-corpo e la cosiddetta intelligenza artificiale, logica, matematica e teoria della complessità, come la chiamano. E questa è la sorpresa più stuzzicante dei nostri anni.
Per ora se ne parla poco in modo chiaro ed esplicito, perché la cosa potrebbe diventare perfino pericolosa, se proprio con i suoi metodi e argomenti la scienza dovesse arrivare a dimostrare la “necessità logica” e l’“esigenza epistemologica” di quel “fondamento” dell’umana conoscenza e della realtà che misuriamo, fondamento che comunemente tutti chiamano Dio («quod omnes dicunt Deum», Somma teologica, parte I, questione 2, corpo dell’articolo 3). Curiosamente, ma non troppo, quest’ultima espressione fu impiegata circa otto secoli fa da san Tommaso d’Aquino (il “dottore comune” a tutta la Chiesa) che visse nel XIII secolo.
Certo, l’ordine del cosmo, l’ingegnosità dei “meccanismi”, dei “processi” chimici e biologici, hanno sempre destato meraviglia negli uomini di scienza, fino a spingerne molti verso una qualche forma di religiosità e di credenza in un principio ordinatore. Ed essendo la scienza moderna nata nell’Occidente europeo, in maggioranza sono stati cristiani e hanno accolto la Rivelazione e la dottrina della Chiesa. Per quasi tutti, però, finora il percorso della ricerca scientifica (oggettivo e pubblico) e quello umano della meraviglia, del senso religioso (vissuto come soggettivo e privato) sono rimasti cammini paralleli, collegati dalla pura contingenza, dovuta al fatto che lo scienziato è una persona umana, con un cuore per commuoversi di fronte alla contemplazione del cosmo.
Tutto ciò è giusto, bello, pio, e talvolta santo… ma rimane senza un terreno solido, che ha la forza di una dimostrazione logica che serva a comprendere la realtà sperimentale. La scienza non è pura e semplice descrizione, ma ricerca dei “perché”, delle relazioni di “dipendenza causale” delle cose le une dalle altre. Curiosamente, ma non troppo, qui ritroviamo ancora san Tommaso: «Si dicono “cause” quelle cose dalle quali ne “dipendono” altre, quanto al loro “essere” e al loro “divenire”» (Commento alla “Fisica” di Aristotele”, libro I, lettura 1, n. 5).
Nell’ambito della ricerca di una “spiegazione causale” che renda logicamente e sperimentalmente conto della “descrizione” di ciò che si osserva è sempre stato naturale, fin dall’antichità, chiedersi se sia logicamente ammissibile, o addirittura indispensabile, concepire l’esistenza di una “causa di tutte le cause”, o “causa prima” come l’hanno chiamata gli antichi, da Aristotele a Tommaso e oltre (è la sua famosa “seconda via”). Essi giunsero alla conclusione che: «è necessario – per ragioni di ordine logico – porre una causa prima» (idem) che delimita l’intera catena delle cause che spiegano l’esistenza e il divenire delle cose.
Altre domande simili hanno riguardato l’universo: che cos’è l’universo? È l’insieme di tutte le cose materiali che esistono, dalle particelle elementari alle galassie. Tutto! Questo “tutto” può essere a sua volta “parte” di qualcosa di più grande? Evidentemente no, altrimenti non sarebbe più “tutto”. Questa domanda così antica se la sono posta anche i matematici moderni (a partire da Georg Cantor, 1845-1918), quando hanno smesso di occuparsi solo di “numeri” e “relazioni tra numeri” e hanno incominciato a studiare gli “insiemi”, cioè le collezioni di oggetti qualunque (la matematica incominciava a trasformarsi in un’ontologia formale, una metafisica). Si sono domandati se si poteva concepire una “collezione universale”, che contenesse tutte le collezioni. Hanno risposto di sì, purché si ammetta che questa collezione universale è di “tipo” diverso da tutte le altre per il fatto che non può a sua volta essere contenuta in una più grande, pena una contraddizione logica (se è la più grande non può appartenere a una più grande ancora).
Sembra un’ovvietà, ma dimostrarlo tecnicamente è servito a sbloccare la matematica e, con essa, tutta la nostra scienza moderna dalla convinzione di poter essere un “sistema chiuso”, interamente fondato su se stesso. Occorre un “fondamento” che non è della stessa natura di ciò che da esso viene fondato e reso possibile.
Qualcosa di simile è stato ottenuto da Kurt Gödel (1906-1978) quando ha dimostrato che nessun sistema logico (“sistema assiomatico”) può dimostrare al suo interno tutte le proposizioni che il suo linguaggio gli consente di formulare; e quindi per decidere se una proposizione di quel genere è vera occorre ricorrere ad un sistema di “tipo” diverso dal “mondo mentale”, come ad esempio l’osservazione sperimentale nel “mondo esterno” o anche una “rivelazione” da parte di qualcuno che è oltre il sistema. Il mondo esterno, come la causa prima, sono necessari per il progredire del sapere scientifico. Diversamente esso si blocca. E una rivelazione, da parte di “Uno che sa” può essere un ulteriore grande aiuto per l’uomo.
Un problema simile si pone anche ai biologi, agli scienziati che si occupano dell’intelligenza umana o artificiale, e a tutti coloro che hanno a che fare con la teoria dell’“informazione”, perché l’informazione è qualcosa di natura diversa dalla materia, essendo “immateriale”. Uno dei padri di questa teoria, Norbert Wiener (1894-1964) capì, fin dall’inizio che «l’informazione è informazione, non è né materia né energia. Nessun materialismo che non lo riconosca potrà sopravvivere al giorno d’oggi» (Cybernetics: or the control and communication in the animal and the machine, Technology Press, MIT, Cambridge MA, 1965, p. 132). L’interrogativo che oggi si pone a questi ricercatori è simile a quello che si pose san Tommaso (cfr. Somma teologica, parte I, questione 85, corpo dell’articolo 1): può un cervello (oggi, diremmo noi, anche un computer) che sono fatti di materia compiere un’operazione “immateriale” come quella di estrarre l’informazione universale, che è immateriale, da ciò che osserva e manipola, senza l’intervento di un soggetto “immateriale”, capace di azioni autonome dalla materia? È l’antica questione dell’“anima umana spirituale”.
Si potrebbero citare altri esempi che mettono in luce come oggi sia la scienza più avanzata – che ovviamente non va in televisione a smentire i “piloti” del Nuovo ordine mondiale e del nuovo umanesimo che travestono di una scientificità inesistente l’ambientalismo dei cambiamenti climatici, come fossero prodotti necessariamente dall’uomo – a cercare di restituirci, per una necessità logica interna ad essa, quei principi logici e metafisici oggettivi indispensabili (e quindi non relativi a una cultura particolare), che sono venuti meno alla filosofia moderna, a certa teologia e alla cultura del mondo contemporaneo, gettandolo nel relativismo, nell’arbitrio legislativo e giudiziario e, quindi, nell’invivibilità.
Oggi è la scienza più avanzata ad andare controcorrente! A questa scienza, seria, che sta scoprendo i suoi irrinunciabili principi logici e metafisici da più di un secolo, i filosofi e i teologi della Chiesa dovrebbero aprire le porte, invece di convincere l’ecclesiasticità a far proiettare sulle facciate delle grandi basiliche (da san Pietro a Roma a san Francesco ad Assisi), profanandole, delle scene animaliste e ambientaliste, e a colorare di un ecologismo ideologico i suoi documenti!
Al loro tempo i grandi dottori come sant’Alberto Magno e san Tommaso d’Aquino seppero farlo accostando il pensiero filosofico-scientifico di Aristotele. Invece di rincorrere la pseudo-teologia, oggi di moda, piena di parole dal suono ammaliante, ma vuote e ambigue (quando addirittura non cristiane) nel significato, affidiamoci alla loro intercessione e studiamo le loro opere, abituandoci a passare dal loro antico latino medievale all’inglese delle più avanzate e serie ricerche interdisciplinari dei nostri giorni. Buon lavoro!